Come far pagare davvero le tasse alla Silicon Valley


(reuters)
La decisione della Corte Europea di cancellare i 13 miliardi di euro di presunte tasse non pagate, che Apple avrebbe dovuto versare all’Irlanda, dove ha stabilito da anni la sede europea, non vuol dire che Apple abbia ragione.

Vuol dire che Apple non ha infranto nessuna legge e che la strategia della Commissione europea, in particolare di Margrethe Vestager, di provare a cambiare il sistema fiscale a forza di maxi multe, non risolverà il problema. Per la commissaria si tratta delle seconda sconfitta in nove mesi: la prima era stata la decisione con cui lo stesso tribunale aveva dato ragione alla catena di caffetterie Starbucks accusata di non aver pagato 30 milioni di euro di tasse grazie ad un accordo col governo olandese che aveva portato l’aliquota dal 25 al 2,5 per cento. Vero, anche qui, ma legale.

Ora, stabilito che l’esercito di fiscalisti delle multinazionali si muovono da dio nei buchi dell’attuale sistema fiscale, il punto è: il sistema fiscale funziona ancora? Raggiunge lo scopo di avere abbastanza risorse per i servizi pubblici chiedendo di più a chi ha di più? La risposta è no. Il problema non riguarda solo la Silicon Valley - come dimostra il caso Starbucks - ma sicuramente la Silicon Valley ne rappresenta una parte fondamentale e questo perché l’economia digitale, che ha nei nostri dati il suo carburante essenziale, sta consentendo di accumulare in poche mani ricchezze che si fa fatica persino a scrivere.

Già nel 2012 era uscito un rapporto intitolato Tech Untaxed, dedicato a spiegare come i ricchi della Silicon Valley pagassero meno del dovuto. Nel 2016, in occasione della multa ad Apple appena cancellata, era stata la rivista simbolo della rivoluzione digitale, Wired, a spiegare le tecniche con cui le grandi aziende riuscivano ad evitare di pagare il dovuto triangolando ricavi in diversi paradisi fiscali. E ancora alla fine dello scorso anno, l’istituto britannico Fair Tax Mark aveva calcolato che negli ultimi dieci anni l’elusione fiscale complessiva delle “Silicon Six” (Apple, Microsoft, Google, Amazon, Facebook e Netflix) ammonterebbe a 100 miliardi di dollari.

Uno potrebbe replicare che si tratta di numeri sparati a caso. Ma non lo sono i dati della valutazione di mercato di queste aziende, che pure in un momento così drammatico per il pianeta, registrano crescite vertiginose (Apple e Amazon hanno da poco superato 1,5 trilioni di dollari di valore). Questo si riflette sui patrimoni dei fondatori che di quelle aziende sono azionisti. Certo, le valutazioni della Borsa sono volatili: fra venerdì e martedì scorso Jeff Bezos ha perso 8 miliardi di dollari, il che può sembrare una tragedia, ma dal 18 marzo, con gli Stati Uniti in piena emergenza, ne aveva guadagnati 68. Miliardi. Di dollari.

Chiariamo: la ricchezza non è una colpa e in questi casi è frutto di talento, visione e perseveranza; ma anche di una legislazione che ci ha messo anni a capire che con la rivoluzione digitale tutto sarebbe cambiato. Mentre il mondo cambiava i politici hanno dormito ma non è un buon motivo per non fare nulla.
Il sistema fiscale è rotto e nessuna democrazia può resistere a lungo. Continuare ad aumentare le diseguaglianze fra pochissimi super ricchi e tutti gli altri, infilarsi in ogni pertugio della legge per pagare meno (per due anni di fila Amazon non ha pagato imposte e quest’anno se l’è cavata con 162 milioni di dollari, l’1,2 per cento dei ricavi); e poi magari intestarsi pompose iniziative di beneficenza per vestire i panni dei salvatori del pianeta, non è più accettabile né sostenibile.
Qualche giorno fa un gruppo di 83 miliardari britannici ha firmato un appello per chiedere di essere tassati di più per poter contribuire alla ricostruzione dopo il covid-19. Uno potrebbe dire: potrebbero fare una donazione, ma una donazione non cancella le macerie della pandemia, hanno spiegato, macerie che ci vorrà un decennio a ricostruire. La soluzione, questo ci dice la sentenza Apple-EU, non è forzare la legge, ma cambiarla.
Il 31 gennaio, poco prima che il mondo si fermasse per la pandemia, si è svolto l’ultimo round dei negoziati in sede OECD per cambiare le regole fiscali a livello globale: è da un po’ che se ne parla, ma anche stavolta gli Stati Uniti di Trump hanno bloccato un accordo che 130 paesi aspettano.
“Lo troveremo a fine anno” ha detto qualcuno ottimisticamente.
Per farlo occorre iniziare subito.

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