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BO-LAND OF THE LIVING DEAD: L'ultimo raid della Uno bianca
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BO-LAND OF THE LIVING DEAD

pubblicato il Aug 5, 11:34 AM
L'ultimo raid della Uno bianca

L’ultimo raid della Uno bianca

Per sette anni terrorizzarono Bologna e la Romagna con le loro azioni criminali: 24 morti, 114 feriti… Alla fine furono arrestati, per il coraggio di due colleghi poliziotti. La prossima impresa dei fratelli Savi sarà uscire dal carcere. Grazie ai benefici di legge.

È un lunedì in cui dal cielo piove sabbia, quando, nelle televisioni italiane, appare il volto in lacrime di Anna, 19 anni, kosovara, madre di due bambini rom morti in una roulotte incendiata. Poi la telecamera allarga e alle sue spalle appare il campo nomadi: le baracche, i rottami, le figure che ci vagano in mezzo. Immagini già viste. Alla lettera: era il 10 dicembre del 1990, l’ora le 19 e 40, quando nello stesso accampamento alla periferia di Bologna arrivò una Uno bianca dalla quale scesero i due fratelli Fabio e Roberto Savi, aprendo il fuoco e ferendo nove persone, sette slavi e due italiani. Tra loro: Lirije Lukaci, 45 anni, madre di una bambina di 9 anni che le telecamere ripresero in lacrime accanto alla donna e alla sua mano mozzata dai colpi del fucile AR 70 che i Savi amavano provare su bersagli umani. Quella figlia in lacrime di una sera di dieci anni fa e quella madre in lacrime del lunedì in cui pioveva sabbia sono la stessa persona.

Il cerchio ancora non si chiude, ma al suo interno iscrive una maledizione: quella di una storia, dove (boia chi invoca i capricci del destino) tutti i ruoli, dall’inizio alla fine, vengono rovesciati. I poliziotti fanno i banditi, gli innocenti pagano e chi si batte contro i primi e a difesa dei secondi viene mandato a «dirigere il traffico». In spiaggia. Che cosa è successo, «nel periodo in cui non siamo stati collegati», tra l’arresto dei banditi-poliziotti autori di 103 azioni criminose e le fiamme che hanno avvolto due bambini in una roulotte? Come ha colpito la «maledizione della Uno bianca»? E perché? È stato puro caso o, invece, il caso è puro e cerca di segnalarci, a modo suo, l’immoralità di quanto gli uomini hanno fatto, anche dopo che noi abbiamo distolto lo sguardo, e la necessità di porvi rimedio perché l’assurdo abbia fine, gli innocenti smettano di pagare e il mondo capovolto ritorni al suo posto?

L’auto quasi usciva di strada. Cominciamo da una tragedia soltanto sfiorata: uno sbandamento in autostrada. Sulla vettura viaggiavano tre persone. Alla guida il sovrintendente Pietro Costanza, 44 anni, originario di Lampedusa. Al suo fianco, l’ispettore capo Luciano Baglioni, quattro anni in meno, umbro. Dietro, il magistrato Daniele Paci. La radio trasmetteva il notiziario. In apertura: la vicenda, tormentone nell’Italia del 2000, di un detenuto che aveva approfittato dell’anticipata scarcerazione per commettere un nuovo delitto.
«Ma quelli», disse sorridente Costanza guardando nel retrovisore, «... quelli non c’è pericolo che ce li troviamo in giro, eh?».

Paci non ricambiò il sorriso. Prese il cellulare, lo programmò alla funzione «calcolatrice» e digitò in silenzio, mentre Baglioni aspettava, a ogni istante più perplesso.

«In realtà», concluse il magistrato, «se tengono una buona condotta, potrebbero essere ammessi ai primi benefici di legge… nel 2004».
Costanza si girò di scatto, le mani ancora sul volante, l’auto in picchiata verso il guardrail. Baglioni e Paci urlarono, Costanza si riprese e rimise l’auto in carreggiata. Imprecò.
“Di’... stavi scherzando?”.
Paci non rispose.
Non stava scherzando.
Ha rischiato di provocare l’ennesimo dramma, anello della catena maledetta, ma non mentiva.
Su quell’auto viaggiavano i tre (poco noti) protagonisti della cattura dei banditi-poliziotti. I giornali ne parlarono brevemente, preferendo continuare a evocare fantasmi di complotto. Ebbero luce solo nelle pagine del libro (Baglioni e Costanza, edizioni La Mandragora) scritto da un autore televisivo, Marco Melega, con (una tantum) illuminata prefazione di Antonio Di Pietro, che sinistramente concludeva: “A loro, una delle ultime raccomandazioni lasciatemi da mia madre: fai il tuo dovere e pagane le conseguenze”.
Incaricati dal produttore Valsecchi di scrivere una sceneggiatura sulla vicenda (“Per non dimenticare” come si diceva un tempo, quando esisteva il cinema di denuncia), con Melega siamo andati a Rimini per scoprire “come si pagano le conseguenze per aver fatto il proprio dovere”.

Poliziotti da spiaggia. Baglioni e Costanza ci ricevettero a casa del primo. Si sedettero accanto, le mani su un tavolo che poteva fare da testimonial a un lucidamobili tanto nitidamente ne rifletteva i volti. Sulla sua superficie tintinnavano due braccialetti quasi identici: catena dorata e bandierine per le segnalazioni in mare. Erano colleghi e amici da anni. Si definivano “poliziotti da spiaggia”. Erano capitati a proteggere l’ordine in una zona dove anche i criminali, di solito, venivano tutt’alpiù in vacanza. Fino all’arrivo della Uno bianca. Entrati nell’indagine per caso, ci erano rimasti per tenacia, per una crescente ossessione e per la voglia di vendicare un loro collega e maestro (Antonio Mosca) ucciso dai criminali senza volto sotto un cavalcavia dell’A14 una notte di ottobre del 1987.

Erano arrivati alla verità per deduzioni, intuizioni e per quella fatalità che sovrintende ogni indagine fortunata. Increduli e spaventati, ancora oggi, quando rievocano quel giorno, alla questura di Bologna, quando si presentarono a chiedere il fascicolo di “un certo Savi Roberto” (di cui nulla immaginavano) e, in rapida sequenza,
una poliziotta disse: “Ma questo è uguale all’identikit dell’assassino dell’armeria!”,
poi un altro agente, avvicinandosi: “Ma va là, questo è un collega: lavora di sopra… alla centrale operativa”.
Così, due poliziotti da spiaggia arrivarono ai poliziotti da rapina, ma nessuno (soprattutto quelli che, forse, già sapevano) volle credere loro. Tranne un giudice di Rimini, Daniele Paci, che mandò avanti l’inchiesta, finchè, in quella stessa questura di Bologna, le manette si chiusero intorno ai polsi di Roberto Savi.

E dopo, Baglioni e Costanza?”Dopo, cosa?”.Non so, scatti di carriera, cose così...
“Hanno detto che se volevamo una promozione dovevamo fare ricorso, però ci hanno dato un encomio… solenne”.Che è sempre meglio di un calcio nel sedere. Quanto allo sfruttamento delle capacità rivelate…”Il primo incarico successivo alla Uno bianca è stato nella lotta all’abusivismo da spiaggia”.Tradotto: controlli ai vu cumpra’.Ci scherzano.
“Ci siamo sempre definiti poliziotti da spiaggia, ridendo: va’ che lo siamo diventati”.
L’hanno presa così: amano il lavoro che fanno, il giorno da leoni l’hanno vissuto, se è un mondo di pecore, amen. Quanto al magistrato, Daniele Paci, sono rimasti amici. Lui, però, si è fatto trasferire a Pesaro, dove svolge le funzioni di giudice per le indagini preliminari e non ha bisogno di prendere le inchieste con le molle per non scottarsi. Baglioni e Costanza lo chiamano al telefono. È allegro e nasconde l’amarezza. Anche lui ha fatto il suo dovere e poi è passato alla cassa per le conseguenze. Senza rimpianti. Ha nuove passioni: sci estremo (si è infortunato una spalla, maledetta Uno bianca), immersione subacquea e, soprattutto, degustazione di vini. Quando viene a cena da Baglioni, ha sempre con sé una bottiglia per ciascuna portata e, alla fine, brindano al fatto di essere scampati. Non soltanto ai Savi, è da presumere. Non fanno polemiche: il capitolo è chiuso e la vita va avanti, almeno fino al 2004, quando un nuovo giro di ruota potrebbe capovolgere il senso delle cose e concedere i benefici di legge a chi, della legge, ha vissuto nel disprezzo pur portandone le insegne.

UNA FURIA IN GABBIA. Ma che ne è stato dei fratelli Savi, dopo la cattura? Chi li ha visti esclude che su di loro si sia affacciata l’ombra del pentimento.
Raccontano che al primo incontro dopo gli arresti si guardarono in silenzio, per qualche secondo, poi si abbracciarono festanti e, interrogati, rievocarono i loro delitti, rivivendoli con la passione e il trasparente rimpianto con il quale due quarantenni rievocano le partite di calcio della gioventù.
“E quella volta al campo nomadi? Te la ricordi? Te c’avevi il revolver, l’essepì tre cinque sette… io il fucile, l’aerre settanta… e abbiamo cominciato a sparare e quelli scappavano come matti…”.E giù a ridere. Come matti, ma davvero.
“E quando coso, lì... come si chiamava quello… sì quello che non centrava un bersaglio da mezzo metro… quando gli hai detto o spari tu a loro o sparo io a te… ed è diventato tutto bianco, poi, oh, però, dopo… a momenti ci prendeva anche lui…”.E altre risate.
Che se poi Fabio Savi, detenuto nel carcere di Sollicciano, a Firenze, dimostra di sapersi contenere, il fratello Roberto, in cella nel carcere militare di Forte Boccea, non risparmia atteggiamenti che confermano almeno due cose. Primo: il capo della banda era, indiscutibilmente, lui. Secondo: ha visto molti film americani di ambiente penitenziario. Radio Carcere racconta che, come Hannibal the Cannibal nel Silenzio degli innocenti, ha aggredito un agente di custodia che aveva infilato la testa nella sua cella.
“Che cosa rischio se uccido un secondino?”, si è informato.
Aggiungono che, come i protagonisti di Fuga da Alcatraz o Le ali della libertà, aveva cominciato una paziente opera di riavvicinamento alla libertà. Staccata una delle molle del letto, ne aveva fatto uno strumento da scavo e aveva pazientemente cominciato a raschiare il muro, mettendosi poi il materiale ricavato nelle tasche e disperdendolo nell’ora d’aria, per non lasciare tracce. Lo ha smascherato una telecamera piazzata in un angolo del cortile.
Quando entravano nelle banche le distruggevano, le telecamere, e si portavano via la cassetta.
L’unica volta in cui non lo fecero, sul nastro rimase impressa la faccia di Fabio Savi. Baglioni e Costanza ne ricavarono una foto che misero nel portafoglio, alla cornice dello specchio nel bagno, sul cruscotto della Y 10 verde con cui si aggiravano, finché, nel bar di un paesino romagnolo chiamato Torriana, lo incontrarono, da lui risalirono al fratello e ora eccolo lì, Roberto Savi, a passeggiare in un cortile privato, ricavato apposta per lui in modo da impedirgli altri stratagemmi e controllarlo più attentamente.
Quello che non ha imparato dai film americani, gli viene dal suo istinto maligno. La scena più inquietante la racconta un funzionario di polizia che andò a incontrarlo per avere informazioni in merito all’inchiesta. Nel parlatorio, sotto lo sguardo attento di una guardia carceraria, i due stavano conversando, quando, all’improvviso, Roberto Savi mostrò all’altro, coprendolo alla vista della guardia, un biglietto. Poi, velocissimo, se lo mangiò. La guardia fu costretta a fare rapporto, parlando di una comunicazione misteriosa. Il biglietto, assicura l’agente, era assolutamente bianco. Un modo per intorbidare le acque, inguaiare qualcun altro, seminare nuove ombre in una vicenda già abbastanza oscura.
Quando lo arrestarono, nella centrale operativa della questura dove lavorava, disse: “Se avessi voluto, avrei potuto farvi fuori tutti. Non l’ho fatto perché siete amici e colleghi”.
L’ha ripetuto spesso, nei successivi interrogatori. Lo vive come il rimpianto della vita.
È una specie di “sindrome Casaroli”, leggendario bandito bolognese (le cui gesta sono tramandate dalla fiction cinematografica). È il desiderio di avere un’altra occasione (2004 o più tardi, purché esista) per chiudere i conti soprattutto con se stesso e morire con un’arma in pugno, dopo uno scontro epico, da western metropolitano: raffiche nell’aria, sangue sull’asfalto e una figura solitaria, the last man standing, che vacilla, spara un ultimo colpo e cade, finalmente appagato, sconfitto e trionfante. Uno talmente cattivo da costringere i poliziotti a giustiziarlo, come l’omicida seriale di Seven.
L’ispettore Baglioni ricorda spesso gli occhi di Roberto Savi che lo guardano fissi, la sua voce tranquilla che
ripete una cantilena: “Non sono ancora stato cattivo… non sono ancora stato cattivo…”.

IL DEMONE ORIGINARIO. Che cosa lo ha reso così? Lui e Fabio, per non trascurare Alberto, il terzo fratello, a lungo ritenuto “il buono” e poi scoperto complice. Se lo sono domandati in molti. La risposta, probabilmente, l’ha data una donna, l’ex moglie di Fabio Savi: colpa del padre. Al cancello della sua abitazione, a Villa Verrucchio, era appeso un cartello con il seguente avvertimento: “Attenti al cane a al suo padrone!”. Più al secondo che al primo, in verità, poiché solo il padrone usciva imbracciando il fucile e anche il cane, in sua presenza, appariva poco tranquillo.
Nel suo libro, Melega racconta che “Fabio riferiva alle sue donne i racconti ricorrenti del padre, di quando faceva parte di squadre punitive che andavano in giro a rasare le persone per poi incidere sulla loro testa una croce con la pece e la cera. E il caso ha voluto che, molti anni dopo, anche il figlio Roberto abbia rasato un tossico nel corso di un interrogatorio”.
Savi padre era “un tipo turbolento che non riusciva a mantenere a lungo un mestiere, che metteva i figli in collegio quando non era in grado di mantenerli, che cambiava spesso abitazione”, che amava le armi, odiava zingari, ebrei e neri. Che, nel tinello di famiglia, guardando al telegiornale le immagini trasmesse dal luogo dove erano stati uccisi gli africani Ndiaye Malik e Babou Cheikh (autori i suoi figli, a colpi di pistola Beretta; la notte era quella, afosa, del 18 agosto 1991, l’ora le due in punto), esclamò: “Così si fa”, non si sa se, anche, con orgoglio paterno, perché aveva capito tutto.I suoi figli rapinavano e uccidevano a bordo della Uno bianca.
Lui, che pure ne possedeva una, un mattino ci è salito sopra con il suo inseparabile fucile e ha chiuso i conti con se stesso, il suo passato e la sua discendenza. Era già stato abbastanza cattivo per farla finita, probabilmente.
Una croce di cera e pece; se dovuta, una prece: amen.

DONNE INFELICITÀ. Al funerale di Savi padre non erano presenti le donne della famiglia. Strani personaggi, in verità. Mogli, ex mogli, capaci di convivere con il sospetto. Una, la (poi ex) moglie di Roberto Savi, capace di dire a Eva Mikula, giovane fidanzata rumena di Fabio, parlando dell’amante del proprio marito: “Della negra non ci possiamo fidare… dobbiamo fare attenzione”. La “negra”, di nome Stella, era una ragazza africana, schiava del racket della prostituzione e riscattata da Roberto Savi pagando i suoi protettori con i soldi delle rapine. Di qui (oltreché dall’insegnamento paterno) il suo odio verso le persone di colore e l’esecuzione sommaria di due di loro a San Mauro. Passata dalla prigione del racket a quella di un appartamentino affittato per lei dall’amante padrone, Stella scomparve nel nulla subito dopo la cattura del suo uomo. C’è chi sostiene che la sua fine, ignota, sia tutt’altro che lieta.

La fine è nota, invece, per Eva Mikula, forse la sola a essersi risollevata dagli effetti della maledizione. Dopo l’arresto della banda divenne una star. Ebbe momenti di fama, scanditi da un tassametro inesorabile. Ogni volta che appariva, l’audience si impennava, che al suo fianco ci fosse Enzo Biagi dopo il Tg1 o la Parietti in seconda serata. E lei, prima ancora di aprire bocca, riscuoteva il compenso. Non si gestì, però, nel modo migliore, e il prezzo di mercato di una sua intervista calò rapidamente. Rifiutò una prima generosa offerta per un libro di memorie e si ridusse ad accettarne una molto più bassa. Si diceva che stesse sotto i riflettori per proteggersi, temendo vendette di chi, ancora ignoto, stava dietro la Uno bianca. Il tempo dimostrò che non esistevano dietrologie e che Eva Mikula, semplicemente, amava la ribalta e i suoi compensi. Ancor più, lo dimostrò Schicchi Riccardo, professione scopritore.
Erano, come spesso in Italia, tempi di complotti e golpe all’amatriciana.
Parallelamente a Eva Mikula venne alla ribalta un’altra donna “informata sui fatti”, tale Di Rosa Donatella, ribattezzata Lady Golpe, anche lei propensa, nei momenti del piacere, a occuparsi di “servizi segreti”. Furono vicende e percorsi analoghi: l’ultima rivelazione fu quella del proprio corpo, davanti a platee maschili insoddisfatte perché ora potevano vedere i misteri d’Italia, ma che, stuzzicate nella loro ansia di approfondimento, avrebbero voluto addentrarvisi. Fu, anche quella, una breve parentesi. Come Lady Golpe, neppure Eva Mikula era portata per l’arte: semplicemente, come molti, subiva la sindrome della ribalta.
L’Italia è piena di protagonisti di una stagione di cronaca, terribile o fatua, che non riescono a tornare nell’anonimato e magari finiscono, pur di evitarlo, per fidanzarsi tra loro (dopo essersi conosciuti, si presume, alle riunioni dell’associazione “meglio morti che anonimi”), come Cesare Casella (rapito in Calabria e per la cui liberazione la madre si incatenò) e Raffaella Zardo (aspirante valletta, teste d’accusa contro i “meroloni” dello spettacolo).
chi tocca i fili muore. Eva si è ripresa in extremis. Dopo un fidanzamento riminese e una stagione da barista è approdata a Roma, compagna di un benestante operatore del settore delle carni (che non è Schicchi). La maledizione l’ha lasciata al suo giovane avvocato dei tempi d’oro, Paolo Masini, quello che, per occuparsi del personaggio, si era ritrovato, per forza di cose, più manager che legale. Lo ha colpito una malattia grave e improvvisa, costringendolo a una lunga degenza e ostacolandone la promettente attività.
E la maledizione non finisce lì. Chi tocca i fili muore, chi tocca la Uno bianca si fa del male, comunque.
Poiché la storia si distende a cavallo degli anni Novanta e tira in ballo ogni pista (terrorismo, mafia, servizi segreti) e ogni settore di indagine (magistratura d’assalto, corpi speciali e poliziotti da spiaggia), inevitabile che si intrecciasse con i protagonisti delle inchieste più calde di quegli anni e che i destini finissero rispecchiati, forse contagiati irrimediabilmente da quei momenti di comune percorso. Prendiamo il giudice Antonio Di Pietro, per esempio.
Ci “salì” anche lui, sulla Uno bianca. Ne scese quasi subito, ma era ormai segnato.
Come scrive nella prefazione al libro di Melega: “Per conto della commissione parlamentare stragi ho redatto a suo tempo una relazione in cui, dopo aver analizzato i documenti e le carte processuali, espressi motivate riserve sull’operato investigativo di chi per anni si era occupato della materia: errori nelle piste percorse, sovrapposizioni di indagini e di organi preposti, mancanza di coordinamento e assenza di raccordo dei vari indizi pure esistenti a iosa per poter individuare prima il bandolo della matassa”.
Conclude amaramente Di Pietro: “Accomunati dal solito destino. Già, perché quel che è successo a me nell’inchiesta Mani Pulite è capitato al collega Paci per aver voluto a tutti i costi “fare” l’inchiesta sulla Uno bianca: è finito sotto processo disciplinare”.
Poi, va da sé, Paci ha scoperto il Brunello, Di Pietro ha fondato l’Asinello.
E, dipende certamente dai punti di vista, ma forse continuare a fare, con distacco, il giudice a Pesaro è un modo per schierarsi più forte che andare in carrozza al Senato.Quanto all’altro giudice dell’inchiesta, quello di Bologna, Spinosa, solito girare con due auto blu (manco fosse Scalfaro) e otto uomini di scorta, è rimasto nella procura, occupandosi però di indagini minori, tra cui un delicato caso di magia nera.

E ULTIMO VENNE ULTIMO. Ma poiché quella della Uno bianca è la storia che ha raccolto a bordo tutti gli spicchi dell’Italia anni Novanta, tutti i suoi miti e i suoi mali, era pressoché inevitabile che accadesse anche quello che segue. E cioè che un giorno, del fantomatico pool che mai cavò un ragno dal buco, fosse chiamato a far parte, in rappresentanza dei carabinieri, un personaggio “fuori dal cast”: un capitano che portava abiti casual, un lungo codino, un tascapane, e citava spesso le massime di saggezza degli indiani Apache. Il suo nome di battaglia era Ultimo. Di lì a poco, il 15 gennaio del 1993, avrebbe messo le manette ai polsi del boss dei boss: Totò Riina. Curiosamente, anche lui “pagò le conseguenze per aver fatto il suo dovere”.
L’Arma che aveva servito e tuttora serve con fervore si complimentò e sciolse il suo gruppo.
Ultimo è diventato un eroe per quella che lui chiama la “sbirraglia”, militi e agenti da un milione e otto al mese, e un poster boy da staccare dal muro per i suoi superiori. Ha avuto più dalla fiction che dalla realtà ed è curioso che, ora, lo stesso destino tocchi a Baglioni e Costanza. I quali, peraltro, non sembrano preoccuparsi troppo di quel che accadrà: quello che li impegna di più è sempre l’indagine che hanno in corso, che nel mirino ci siano poliziotti deviati o ambulanti truffatori.
Adesso si dedicano alla lotta all’evasione fiscale e ogni giorno portano a casa risultati a nove zeri.
Ai banditi-colleghi della Uno bianca pensano raramente e quello che ricordano meglio è il terzo fratello, Alberto Savi, che lavorava nel loro stesso commissariato e, perfino, li “aiutò” in una indagine, incaricato di ricostruire i tempi di una rapina compiuta con la sua stessa automobile. Anche lui, adesso è in carcere, e condivide la profonda depressione che ha attanagliato il collega da Bologna, Pietro Gugliotta.
Del commando sull’utilitaria uno solo (quello che non sapeva sparare bene) è a piede libero. Vive sulle colline romagnole e si dedica a tempo pieno al gioco del tennis. Il suo nome, a questo punto, va dimenticato, come è stata dimenticata gran parte della vicenda e del marciume che aveva svelato.Si fece, all’epoca, lo scontato paragone delle mele guaste nel cesto sano.
Si evitò di considerare a lungo come mai il perfetto identikit di Roberto Savi, appeso sulla parete di un corridoio che lui percorreva più volte al giorno, non fu, ufficialmente, mai notato. Si trascurò di fare, nella questura di Bologna, il “mea culpa” che perfino i pontefici si concedono e il repulisti che la questione invocava. Si sollevò l’italico polverone che evocava servizi deviati, connessioni con la malavita o il terrorismo dell’Est, ombre di golpe. E si perse di vista quello che era sotto gli occhi di tutti.
Sono passati dieci anni dall’agguato dei fratelli Savi al campo nomadi. Nel lunedì in cui piove sabbia dal cielo i giornali aprono con le vicende del “pappagolpe”, proclama da bar di un colonnello dell’Arma. Fantasmi da operetta ballano sulle prime pagine. Un miliardario in crociera elettorale si dichiara vittima del regime. Pagine a pagamento evocano “il piano Solo”. Dentro, in breve, si racconta di una perquisizione compiuta, in punta di piedi, dai carabinieri nella questura di Bologna. Esito: 16 agenti incriminati per abuso d’ufficio e altri reati. Arrotondavano facendo i buttafuori nei locali, esibendo il tesserino. Erano in combutta, una squadra affiatata, che ha cominciato col doppio lavoro menando le mani e nessuno sa dove sarebbe andata a finire. Da dove veniva, però, tutti lo sapevano di sicuro: dal cesto di mele mai controllato.
i consigli delle mamme. Sono passati dieci anni fra i due pianti di Anna, con tutto quel che è successo, con tutto quel che è cambiato, niente è cambiato abbastanza. L’ultima immagine che porto via da casa dell’ispettore Baglioni è questa: la sua bambina seduta sul divano riavvolge la videocassetta e ricomincia a guardare, per l’ennesima volta, il filmato delle nozze dei suoi genitori. Affascinata li osserva danzare sotto le volte del ristorante, vede Costanza, in un angolo, lanciare l’applauso e poi unirsi alle danze con la mamma della sposa. Sorride felice: guarda i suoi genitori come attori di un film. Poi sua madre viene a prenderla e, con dolcezza, la porta via. Nel corridoio le sussurra una raccomandazione.
Come insegnano le mamme sagge, che i figli diventino giudici, poliziotti, insegnanti o altro: “Preparati a fare il tuo dovere e a pagarne le conseguenze”.

Gabriele Romagnoli

Da:Diario.it


CRONACHE MILANO UNA LETTERA AL GIUDICE SENZA CONSULTARE IL LEGALE Chiede la grazia Roberto Savi, killer della Uno Bianca L’ira dei parenti delle vittime: «E’ assurdo» Per il suo avvocato «l’ex poliziotto è pentito» 4/8/2006 di Giovanna Trinchella

Roberto Savi
Roberto Savi sulla sinistra
MILANO. Schivo e riservato. Così tanto da meditare in perfetta solitudine la richiesta di grazia. Roberto Savi, 52 anni, da dodici in carcere per scontare l’ergastolo per i crimini della «Uno Bianca», 24 morti e 100 feriti, ha scritto al tribunale di sorveglianza di Milano senza neppure consultare il suo avvocato, Donatella Degirolamo. Ma «è senz’altro pentito» dice ora il suo legale. È una lettera breve, sembra, quella ricevuta dal giudice milanese Guido Brambilla. Una istanza che dovrà essere trasmessa al ministero di Giustizia, che dovrà aprire un’istruttoria ed eventualmente sottoporla al capo dello Stato. Un percorso molto lungo, ma che ha immediatamente scatenato l’indignazione dell’associazione dei parenti delle vittime di quella tragica stagione di sangue.

«Spero che i magistrati di sorveglianza siano attenti, spero che non gliela diano, mi sembra di sognare: è una cosa vergognosa». Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione delle vittime della banda della «Uno bianca», è amareggiata solo all’idea della richiesta da parte dell’ex poliziotto assassino. Il marito, Primo, fu il pensionato ucciso nell’ottobre del 1990 perché testimone di una rapina: stava annotando il numero di targa della macchina. «Mi meraviglio che non si vergogni uno che ha ucciso 24 persone. Non credo che gliela possano dare – riflette la donna – e se gliela danno sono pazzi. Non ci sono solo i morti, che si rivolteranno nella tomba, ma anche i feriti: sono persone che ancora portano i segni di quello che hanno subito, si stanno ancora curando, ancora non riescono ad andare nei supermercati, in banca o alle poste, perché hanno paura di luoghi affollati. Ci vorrebbe più dignità». Stupito anche il sindaco di Bologna Sergio Cofferati: «Personalmente», ha detto, dopo i gravissimi atti criminosi del Savi e dei suoi complici che provocarono tante vittime e una profonda ferita alla città, non vedo nessun elemento che renda plausibile una simile richiesta e ancor meno una sua ipotetica accettazione».

Eppure Roberto Savi «è senz’altro pentito» conferma l’avvocato: «L’ho visto il 2 maggio – racconta il legale – e non abbiamo affrontato questo argomento. Era normale, tranquillo». Un’iniziativa «lontana dalla realtà» per il difensore, che con tutta probabilità il difensore non avrebbe consigliato né approvato. Stupore anche nel carcere di Opera. Nel fascicolo del detenuto non compare nessun tipo richiesta. Quindi, a meno di clamorose smentite, Savi ha scritto la lettera e l’ha spedita direttamente al tribunale di sorveglianza. L’ex agente è detenuto nel carcere milanese dal novembre del 2004 proveniente da quello militare di Peschiera Borromeo. È un uomo silenzioso, che non fa amicizia e che non ha mai creato problemi; ha colloqui con gli operatori addetti all’osservazione della sua personalità: un percorso ancora non concluso, fa la vita di un detenuto normale. Nella sezione protetti, dove divide la cella con un altro detenuto, fa piccoli lavori di pulizia. Spazza e lava il corridoio della sezione: un impegno che gli permette di guadagnare 350-400 euro al mese. Savi legge libri e quotidiani e a volte salta le ore d’aria.

Con l’indulto almeno tre persone della sua sezione sono uscite dal carcere. Dei 1400 ospiti finora ne sono stati liberati 260. Forse desiderando anche una sola impossibile chance, quando da mesi si parlava di atti di clemenza del Parlamento, un pensiero di libertà lo ha spinto a scrivere. Più volte uno dei sacerdoti di Opera l’ha sentito dire: «Tutti gli ergastolani prima o poi escono. Spero succeda anche a me». Sta cercando di confrontarsi con se stesso, e comunque appare sereno e tranquillo. «Si è reso conto – dice il prete – di quello che ha fatto». Nel periodo compreso tra la metà del 1987 e l’autunno del 1994 la banda della «Uno bianca» uccise 24 persone e ne ferì oltre 100 a Bologna, in Romagna e nelle Marche.

Furono gli uomini della polizia a far scattare le manette ai polsi del loro collega Roberto Savi. Furono poi arrestati i fratelli Fabio e Alberto Savi, camionista il primo e poliziotto il secondo. Quindi l’agente Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti, vicesovrintendente della Squadra mobile, e Luca Vallicelli, agente Polstrada.