Mi sembra che la questione centrale oggi non sia tanto l’antisemitismo – che appare invece un ottimo pretesto per zittire coloro che non condividono la politica di Israele – quanto il problema del sionismo.
“La politica di Israele e il nodo del sionismo”
Mi sembra che la questione centrale oggi non sia tanto l’antisemitismo – che appare invece un ottimo pretesto per zittire coloro che non condividono la politica di Israele – quanto il problema del sionismo.
Premesso che per fortuna non tutti gli ebrei lo sono (non lo era ad esempio Primo Levi che spesso si trovò in contrasto con la politica di Israele), penso che il sionismo debba essere considerato come l’ultima propaggine storica del colonialismo europeo in Medio Oriente. Non a caso la dichiarazione di Balfour venne stilata in Gran Bretagna, uno dei più grandi paesi colonizzatori nel mondo e in Europa (non dimentichiamoci dell’Ulster), proprio mentre le potenze occidentali incominciavano a guardare con maggior interesse alla crisi dell’impero Ottomano che iniziava a profilarsi.
Israele non nasce solo per garantire gli ebrei da una nuova Shoah ma anche per avere una testa di ponte in quella regione, non a caso prima fu appoggiato dall’Urss in funzione antibritannica, poi dagli Usa. E non è un caso che abbia iniziato a dedicare alla Shoah così grande attenzione come dopo la guerra dei 6 giorni, una sorta di giustificazione a posteriori di quella che Schuldiner ha recentemente definito «una guerra preventiva ante litteram, dove Israele attaccò e non fu attaccata», come invece da allora ci si ostina a dire. Lo stesso si può dire della Nakba, e della guerra del ‘48, dimenticate o riportate in modo assai differente da quello che furono in realtà (chi si ricorda di Dir Yassim?).
Certo la situazione è sicuramente complessa, vi si innestano questioni storiche e religiose (ma noi sappiamo che in fondo la religione spesso non è altro che un modo per detenere il potere), del resto esiste anche un fondamentalismo religioso ebraico che in questi ultimi anni ha intaccato la laicità di quel paese, ma considerare il ruolo della politica occidentale nell’intera regione attraverso Israele, può essere un tassello importante.
Del resto perché Israele non vuole ritirarsi entro i confini del 1967? Perché non vuole risolvere il problema di Gerusalemme e dei profughi? Perché, paradossalmente, non ha mai voluto annettere definitivamente i Territori occupati?
Israele nasce come stato democratico ebraico cioè su base etnica e questa è una grossa contraddizione. Ancora oggi ad oltre 50 anni dalla sua nascita non ha una costituzione perché la parte religiosa della sua popolazione riconosce come legge fondante dello stato solo la Torah. Annettersi i territori comporterebbe uno squilibrio demografico ed Israele cesserebbe di essere uno stato ebraico, togliere agli arabi annessi i diritti civili manterrebbe l’aspetto etnico ma Israele non sarebbe più democratico.
Il peccato originale di questo paese è nel motto stesso del sionismo «Una terra senza popolo per un popolo senza terra». Peccato che quella terra un popolo ce l’avesse anche se per decenni, Golda Meir insegna, era negato nella sua stessa esistenza. Illuminanti sono a questo proposito due testi: quello di Tanya Reinarth, docente dell’università di Tel Aviv «Distruggere le Palestina» e quello del grande intellettuale e troppo presto dimenticato Edward Said, «la questione palestinese» dove il nodo cruciale è sempre quello dei rapporti non solo fra Israele e il mondo arabo ma anche fra occidente e Medio Oriente, del resto la diplomazia oggi si sta comportando dome si comportavano le potenze coloniali dell’800, significativo il fatto che il paese più attivo sia la Francia, ex protettore del Libano.
Così come non è casuale che, tranne che sul manifesto, non viene dato spazio alla dissidenza degli stessi israeliani o ebrei in genere verso il governo Olmert, dai pacifisti in piazza a Tel Aviv agli intellettuali che considerano questa guerra criminale e non si limitano a chiedere di ridurre i danni dopo averla appoggiata. Parlare di dissidenza all’interno di Israele o fra gli ebrei della diaspora può ingenerare il dubbio che forse questa guerra non sia così inevitabile o giusta come la melassa filosionista che alligna ovunque anche in alcuni settori della sinistra, da settimane cerca di farci credere.
Non è in pericolo l’esistenza di Israele, peraltro il paese militarmente più potente della regione dotato di oltre 50 testate nucleari costruite senza il placet di nessuno (altro che l’Iran), è in pericolo l’esistenza del Libano che rischia di diventare un protettorato (vedi l’intervento di Avnery) e che per il momento viene sistematicamente distrutto, mentre il mondo assiste prono ai diktat statunitensi, e non si capisce fra Usa ed Israele chi sia l’uno la pedina dell’altro.
“La politica di Israele e il nodo del sionismo”
Il Manifesto, 12/08/2006