Arabi che vanno in Iraq per combatte l’occupazione
by raffaello Thursday, Sep. 08, 2005 at 10:34 PM mail:
“Combatto gli Stati Uniti e Israele e tutti gli eserciti di quei paesi che sono agli ordini degli Stati Uniti. Combatto quegli eserciti che occupano la nostra terra. E coloro che hanno commesso violenze contro il nostro popolo alla fine saranno cacciati”. Non è una minaccia, è solo una cauta convinzione che si fa largo negli occhi di Rachid, mentre si accende una sigaretta e tutti intorno stiamo ad ascoltare. Una maglietta sportiva in raso arancione, i capelli corti, ci parla sul divano di casa di amici, tra tazze di caffè e dolci alle mandorle. Fuori il sole estivo è ancora alto, ma già qualcuno ha proposto un salto al mare, tra un’ora, quando farà meno caldo. Dal vicolo sotto casa per ora arrivano solo i rumori dei giochi di bambini, gli unici a non essere intimoriti dalla calura. Per loro una bicicletta, qualche parola bisbigliata e tanta polvere.
Ideale di libertÃ
Rachid non ha esitato a lasciare tutto per spingersi fin nell’inferno iracheno, nonostante i suoi vent’anni, pronto a dare il proprio sangue per qualcosa che per lui vale di più della propria vita: la liberazione dell’Iraq. Vive nell’antica città di Sidone, nel sud del Libano: “Posso dire che da ogni casa nella regione di Biqa’ almeno un ragazzo è partito per combattere in Iraq”. Un fenomeno di massa, quello dei volontari combattenti in Iraq, difficile da quantificare. Forse decine di migliaia. Un fenomeno che ha come precedenti alcune fasi della lotta armata palestinese o della guerra di liberazione del Libano negli anni ottanta. Anche allora migliaia di giovani provenienti da tutto il Medio Oriente non esitarono a lasciare i propri villaggi e le proprie città per andare a combattere per la liberazione dagli occupanti.
“Ho combattuto al fianco di combattenti provenienti da tutto il mondo arabo: Giordani, Libanesi, Palestinesi, Siriani, Sauditi, ma anche Pakistani”.
Può essere qualcosa di incomprensibile agli occhi di un Europeo contemporaneo. Bisogna infatti risalire alla guerra civile spagnola del 1936-39, quando erano le ideologie politiche a scaldare i cuori di migliaia di giovani del vecchio continente, per assistere in Europa all’ultimo episodio di un fenomeno analogo. Anche allora migliaia di volontari non inquadrati in nessun esercito regolare e provenienti da diversi paesi, tra cui l’Italia, accorsero in Spagna alla spicciolata pronti a combattere per una medesima causa. “Io non ho guadagnato nulla, non ho percepito nessun compenso né bottino di guerra. L’ho fatto perché l’ho sentito come un dovere. Gli Iracheni sono lo stesso popolo di cui anch’io faccio parte, è la mia stessa gente”.
Rachid non è un mercenario. Combatte per sconfiggere quel senso di frustrazione che altrimenti lo soffocherebbe. Si scalda, ci tiene ad esprimere le proprie convinzioni, ma non ci sta a passare per un terrorista. “Io penso che se muoiono gli innocenti allora non si può più parlare di resistenza. Questo è ciò che penso. Se anche in un agguato dovessero morire 100 Marines e un solo bambino, allora io dico che quella non è resistenza”. Ma allora, Rachid, perché troppi civili in Iraq muoiono per le autobomba? “Non lo so. E infatti io me ne sono tornato in Libano perché c’erano troppe cose che non mi convincevano nella guerra in Iraq. Troppi infiltrati, non era chiaro chi combatteva chi”.
La guerra sporca
Giusto il tempo di asciugarsi la fronte per il caldo insopportabile, poi riprende: “In Iraq ci sono dei gruppi della resistenza che si combattono tra loro, per motivi di interesse, di supremazia, di controllo del territorio. Spesso questa gente usa l’appoggio delle truppe americane per far fuori i propri rivali”. Ma poi aggiunge: “In Iraq sono stati visti Americani travestiti da arabi mettere le bombe nei luoghi di culto, al solo scopo di mettere sciiti contro sunniti, di dividere il popolo iracheno”.
Però gli attentati di Londra sono stati eseguiti deliberatamente per colpire dei civili: “Personalmente sono contrario agli attentati come quello avvenuto a Londra. Innanzi tutto non servono a niente. Io sono per la lotta armata e la difesa della nostra terra dall’invasore americano e sionista. Ma soltanto una lotta di difesa, qui sulla nostra terra”. I suoi occhi per un attimo si smarriscono. Rachid è un ragazzo dai modi dolci sebbene dalle convinzioni ferree. Con lo sguardo cerca il consenso di chi lo sta ad ascoltare, prima di riprendere. Sa di aver pronunciato parole forti, che investono il vissuto e i sentimenti di tutti. Alcuni ragazzi sono universitari, altri disoccupati. Spesso si ritrovano a discutere dei fatti del mondo, perché loro sono il mondo di cui si discute. Si confronta il disagio, si cerca di scacciare il senso di impotenza, si fa gruppo. E come suggerisce la millenaria cultura mediorientale non dimenticano i principi dell’ospitalità anche e soprattutto con gli ospiti stranieri. Per questo Rachid non ci sta a parlare di scontro di civiltà : “Tu sei il benvenuto in casa mia. Io penso che i popoli europei siano simili a noi, a me piace il calcio italiano. Tutti noi vogliamo la pace, ma sono i governi occidentali ad essere assassini”.
Viaggio di morte
Rachid, ma com’è stato possibile per te prendere e partire? Come sei arrivato in Iraq, chi ti ha inquadrato nella Resistenza? “Siamo partiti, un gruppo di amici mossi dal senso di ingiustizia che noi tutti proviamo quando guardiamo al nostro Medio Oriente. Abbiamo attraversato la Siria in auto e siamo arrivati fin sul confine con l’Iraq. Poi abbiamo continuato a piedi, camminando di notte e nascondendoci di giorno. Così per 5-6 giorni. Abbiamo passato il confine di nascosto, se ci avessero sorpresi avremmo rischiato la vita, o quantomeno le terribili carceri siriane”. Qualche mese fa il Governo siriano ha annunciato di aver arrestato 1200 presunti volontari rientrati in Siria dopo aver combattuto in Iraq. Per loro solo l’incertezza del carcere preventivo in attesa di un processo fumoso e per ora mai annunciato.
“Una volta passato il confine ci siamo diretti verso la località dove sapevamo che avremmo trovato qualcuno pronto ad accoglierci. Si trattava di ex-fedayn di Saddam”.
Sono stati loro quindi a impartirvi gli ordini militari? “Ci hanno accampati nelle tende, nei pressi della zona in cui avremmo dovuto combattere, senza acqua e con scarsi rifornimenti di cibo. Anche l’attrezzatura militare lasciava alquanto a desiderare. Nessuno di noi ha ricevuto un addestramento militare specifico, ma ognuno di noi già sapeva come maneggiare un’arma. Diverso era il discorso per coloro che militavano per al-Zarqawi. Di solito avevano sempre dei rifugi in centri abitati e alloggi e rifornimenti e forse un addestramento alle spalle. Anche le armi in loro dotazione erano sicuramente migliori delle nostre”.
La vita da resistente è una vita di stenti che richiede forti motivazioni, religiose o politiche: “Spesso ci avvicinavamo alle case per chiedere un po’ d’acqua, qualcosa da mangiare, ma la gente aveva paura di noi. Allora dovevamo consegnar loro le armi per far capire che eravamo dalla loro parte, che eravamo lì per liberare l’Iraq e non eravamo dei predoni qualunque. Alla fine capivano e si prendevano cura di noi”.
Ma la morte comunque era sempre una presenza familiare, con cui imparare a convivere: “Durante il periodo in cui ho combattuto in una zona vicino Baghdad, sono morti 2mila combattenti della resistenza, uccisi dal fuoco americano. Tra questi tanti ragazzi che conoscevo bene”.
Sentirsi assediati
Ragazzi provenienti da tutto il Medio Oriente, ma anche oltre i confini di questa terra che, secondo un perfetto gioco degli specchi, oggi si sente sotto attacco dell’Occidente: “Dal Libano all’Iraq noi siamo un solo popolo. Fu il colonialismo europeo a dividerci in tanti Stati. Ora, sulla scia di quel disegno colonialista gli Americani e gli Inglesi sono tornati in Iraq, per sostituire Saddam con una loro marionetta, che magari risponda meglio ai comandi…”.
Rachid, ma tu come ti definiresti, un islamico moderato o estremista? “Questa è una domanda trabocchetto. Io desidero la pace. Ma ti dico una cosa: io sono andato a combattere anche per Saddam. Sì, è vero, qualcuno lo ha definito un dittatore, però è stato l’unica autorità politica araba a non farsi intimidire dall’arroganza dei governi occidentali e durante la prima guerra del Golfo non ha esitato a sparare razzi su Israele e liberare il Kuwait da quella manica di petrolieri venduti agli Americani. Essere moderati significa non avere il coraggio di guardare negli occhi i governanti assassini dell’Occidente? Significa non avere il coraggio di accusarli dei crimini commessi con l’occupazione dell’Iraq e per cui un giorno dovranno pagare davanti alla giustizia internazionale? No, quello non si chiama essere moderati, si chiama essere servili”.
Ora non ci sono più solo bambini a giocare per il vicolo. Si sente il vociferare delle donne e il mercato si è ripopolato. E’ il momento giusto per andare al mare, stipati in una macchina scarburata. Una piccola parentesi prima di tornare a pensare di essere ragazzi in Medio Oriente.
www.medioriente.net