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BO-LAND OF THE LIVING DEAD: The Wire
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BO-LAND OF THE LIVING DEAD

pubblicato il May 22, 12:25 PM
The Wire

The wire: l’america scomoda
Gruppi di ascolto si creano anche per la serie televisiva The wire, che non ha un seguito di massa (1,5 milioni di persone a puntata contro i 20 di Lost) ma un popolo appassionato fino alla mania. È un serial drammatico, socialpoliziesco, con un pubblico diviso in tre categorie sociali.
Da un lato il telefilm firmato da David Simon, ambientato a Baltimora, piace agli abitanti dei ghetti: per lo più neri, a basso reddito e abituati al linguaggio e alla violenza da strada che abbondano in ogni episodio. Dall’altro è seguito da intellettuali che vedono nello show un capolavoro dickensiano d’umanità impareggiabile perché sa guardare alla “decadenza dell’impero americano” (parole di Simon) senza filtri e senza abbellimenti, ma non senza umorismo.
Innamoramento per identificazione o per esaltazione artistica, dunque. Ma anche per idealismo. Che è la motivazione che incolla allo schermo un terzo gruppo di fanatici: gli americani neri che ce l’hanno fatta, sono scappati dal ghetto, hanno preso una laurea e in The wire vedono un’opportunità di parlare al resto del paese di come stanno le cose negli angoli bui delle sue metropoli.
Molti membri della middle class bianca giudicano invece la serie troppo forte. Davvero nelle scuole medie dei quartieri poveri i tredicenni vanno in classe con un rasoio in tasca? La risposta preferita di Simon è che “questa merda non te la puoi inventare”, o, più elegantemente, che il suo lavoro è di “rubare la realtà”.
Poi di solito chiede, polemicamente, se il motivo che ha privato il suo telefilm del successo di Sex and the city non sia il fatto che quando l’americano medio vede troppi neri in tv pensa sia un documentario e cambia canale. Ma The wire, le cui serie precedenti in Italia sono andate in onda sul canale Fox Crime di Sky, è tutto tranne che noioso. I suoi spacciatori, nelle ore passate agli angoli di strada in attesa di clienti, si scambiano opinioni sulle radio di Baltimora, sul migliore pollo fritto della città, su nuove mosse di scacchi. E Tommy Carcetti, l’ambizioso ma idealista consigliere comunale che nella terza stagione (dovrebbe andare in onda in Italia su Sky, la data è ancora da definire) decide di diventare sindaco, sintetizza le sfide della sua candidatura con una battuta memorabile: “Domani mi sveglierò ancora bianco in una città che non lo è”.
Dopo aver messo sotto la lente, criticato e allo stesso tempo umanizzato poliziotti, criminali, insegnanti e politici, nella quinta e ultima stagione The wire si concentra sui giornalisti. È il gruppo sociale con cui Simon, un ex cronista di nera del Baltimore sun, è più a suo agio, ma anche più infuriato. I tagli ai bilanci e al personale, la chiusura degli uffici di corrispondenza, la fine delle inchieste di ampio respiro (come quella che permise a Simon, nel 1988, di passare un anno fra gli spacciatori di Baltimora per scrivere una serie di articoli sulla loro vita) sono il motivo per cui il creatore di The wire ha sbattuto la porta del giornalismo. Ora si prende una piccola rivincita, mettendo in scena la vita di un quotidiano che si chiama proprio Baltimore sun, e dove il motto della direzione è: “Bisogna fare di più con meno”.