«L’illusione fondamentale consiste nella convinzione di vivere in un mondo normale.»
Anonimo
By way of deception, thou shalt do war
Motto del Mossad
C’è un aspetto poco conosciuto della storia recente americana, ed è rappresentato dallo spionaggio condotto sul territorio degli Stati Uniti d’America dai servizi di intelligence israeliani; consistente per lo più nell’intercettazione delle conversazioni dei presidenti
americani e dei loro collaboratori più stretti. Tale azione di spionaggio si intreccia, come vedremo, con i drammatici eventi dell’11 settembre.
L’intelligence di Israele ha spiato dunque il suo miglior alleato, e prima di quel giorno fatidico ciò è accaduto almeno quattro volte.
La prima volta fu nel 1974 subito dopo l’insediamento alla Casa Bianca di Gerald Ford. In questo caso i servizi segreti israeliani si attivarono per scoprire se il presidente considerasse opportuno dare il via libera alla vendita di aerei Awacs per il controllo elettronico all’Arabia Saudita, decisione questa, dell’amministrazione americana, che avrebbe permesso ai sauditi di tenere sotto controllo l’aviazione di Israele in ogni sua mossa.
Quattro anni dopo, nel 1978, l’intelligence di Gerusalemme entrò di nuovo in azione per spiare le conversazioni di Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter.
Nel 1986, con Ronald Reagan presidente, accadde un fatto clamoroso: per spionaggio a favore di Israele venne arrestato Jonathan Pollard, un analista ebreo-americano dei servizi segreti della Marina. Secondo l’accusa Pollard trasmise all’intelligence israeliana migliaia di documenti classificati, e per questo nel 1987 venne processato e condannato all’ergastolo.
Durante la presidenza di George H. Bush, ad essere oggetto dell’interesse dello spionaggio israeliano fu James Baker, segretario di Stato, prima personalità politica a ricoprire tale carica che assunse un atteggiamento meno sbilanciato nelle relazioni di Washington con Israele e con gli Stati arabi; e che dette prova di una insolita fermezza anche nei confronti del governo israeliano.
Nel 1998 fu la volta di Bill Clinton. I servizi segreti israeliani si infiltrarono nella Telrad, una compagnia che assieme alla Nortel ed alla Bell Atlantic stava realizzando un nuovo sistema di comunicazione per la Casa Bianca. Inoltre Telrad e Nortel avevano appena stipulato un contratto con l’Aviazione israeliana. In questo modo gli esperti militari di Israele poterono accedere agli impianti ed ai dispositivi delle due società, installandovi delle cimici che consentirono loro di intercettare le telefonate del presidente.
Nel 1999 la National Security Agency emanò un rapporto nel quale si affermava che alcune registrazioni di conversazioni telefoniche finivano nelle mani di stranieri, ed in modo particolare di israeliani.
Il 4 maggio 2005 l’FBI arrestò Larry Franklin, analista del Pentagono, con l’accusa di aver consegnato il 26 giugno 2003 a Steve Rosen e Keith Weissman, due esponenti della lobby pro-Israele The American Israel Public Affairs Committee (http://www.aipac.org), documenti riservati della Casa Bianca riguardanti l’Iran, o secondo altre fonti, l’Iraq. Esperto in questioni mediorientali, Franklin aveva lavorato al Pentagono a stretto contatto con Douglas Feith, membro di spicco degli ambienti neocon che fanno capo all’influente think-tank che prende il nome di Project for the New American Century (http://www.newamericancentury.org). Il 20 gennaio 2006, Franklin ha patteggiato una condanna a centocinquantuno mesi di reclusione per possesso e divulgazione di materiale classificato.
A che cosa si riferiva il rapporto della NSA prima menzionato? In primo luogo alla AMDOCS, una società high-tech israeliana specializzata nelle telecomunicazioni, che ha stipulato contratti con le venticinque maggiori compagnie telefoniche degli Stati Uniti, per le quali gestisce le guide telefoniche, la registrazione delle chiamate e la fatturazione. In altre parole la AMDOCS ha libero e immediato accesso ad ogni telefono negli USA, nonché alla rilevazione di qualunque chiamata in arrivo e in partenza. Questa azienda può dunque sapere in qualunque momento chi ha telefonato a chi, in qualunque punto degli Stati Uniti.
Ma c’è anche un’altra società high-tech israeliana alla quale il rapporto si riferiva. Si tratta della Comverse Infosys, filiale della Comverse Technology, che fornisce apparecchiature elettroniche e software altamente sofisticati per le intercettazioni delle telecomunicazioni condotte dalla giustizia americana. Per conto dell’FBI aveva messo a punto un sistema di intercettazione che consentiva di registrare praticamente qualsiasi telefonata transitasse per le centrali ed i router. Per di più, alcuni programmi di intercettazione di questa società sono regolarmente finanziati per il 50% dal Ministero dell’Industria e del Commercio israeliano.
Inoltre dal 1994, in base al CALEA (Communication Assistance for Law Enforcement Act), le società di questo tipo possono accedere liberamente ai sistemi informatici delle agenzie governative alle quali prestano la loro assistenza. Tutto questo mostra dunque come da lungo tempo il Mossad, servendosi anche delle più sofisticate tecnologie informatiche, avesse steso una rete spionistica su tutto il territorio degli USA.
Nel giorno dell’11 settembre, l’azione di questa vasta rete si fa intravedere in due diverse, a tratti confuse e poco note vicende; alcune notizie sulle quali sono emerse per brevissimo tempo dal flusso incessante e magmatico della (dis)informazione globalizzata. Questi due episodi non rappresentano casi isolati, si collocano infatti nel quadro della vasta opera di spionaggio condotta dal Mossad negli Stati Uniti; ed è solo a partire da tale contesto che essi diventano intelligibili. Parleremo dunque del caso dei due dipendenti della Odigo, una compagnia specializzata in «instant messaging service»; e di quello dei cinque israeliani arrestati nel New Jersey. Cercheremo di ricostruire, per quanto possibile, questi due casi, prendendo in considerazione cronologicamente una serie di articoli giornalistici comparsi al riguardo. Ciò ci permetterà anche di cogliere la storia e lo sviluppo delle notizie stesse, la loro comparsa e la loro scomparsa, all’interno del mondo dei media.
L’11 settembre 2001, due dipendenti della Odigo, due ore prima degli attentati, ricevettero un messaggio istantaneo via computer che li informava della imminenza degli stessi. Questa in sintesi la vicenda. Fu il quotidiano israeliano Haaretz che per primo ne diede notizia il 26 settembre 2001 con un articolo di Yuval Dror dal titolo: «Odigo says workers were warned of attack». In sintesi il contenuto dell’articolo: Odigo – acquistata nel maggio del 2002 dalla Comverse Technology alla quale abbiamo già accennato – ha la sua sede a New York e degli uffici distaccati in Israele, a Herzliyya, una cittadina a circa quattordici chilometri a nord di Tel Aviv, dove ha sede il quartiere generale del Mossad. Micha Macover, CEO della compagnia, confermò il ricevimento del messaggio e affermò che i due dipendenti, subito dopo aver avuto notizia degli attentati, avvisarono la direzione dell’azienda la quale informò i servizi di sicurezza israeliani che a loro volta coinvolsero l’FBI. Macover non aveva idea del perché il messaggio fosse stato spedito a questi due dipendenti, i quali non conoscevano l’identità del mittente. Secondo l’opinione di questo dirigente della società, forse l’autore del messaggio voleva scherzare e solo per puro caso indovinò. In ogni caso la Odigo, stava collaborando con l’FBI per risalire all’identità del mittente ed al luogo dell’invio.
Il secondo articolo, «Instant Messages To Israel Warned Of WTC Attack», autore Brian McWilliams, comparve il 27 settembre 2001 su Newsbytes. Questo scritto conferma i dati forniti da Haaretz aggiungendo alcuni particolari. Secondo quanto riportato nell’articolo, il testo del messaggio sembrava contenere un riferimento esplicito al WTC, anche se, essendo in corso una indagine da parte delle autorità, la compagnia rifiutò di rivelarne l’esatto contenuto o di identificarne l’autore. Questa volta fu un altro dirigente della azienda a confermare quanto avvenuto. Si trattava di Alex Diamandis, vice-presidente del settore vendite e marketing. Oltre a ciò, nello scritto viene fornito un particolare sui due dipendenti in questione: si tratta di due membri dell’ufficio ricerca e sviluppo, e vendite internazionali. L’articolo ci informa inoltre che il mittente del messaggio era un utente di Odigo. Diamandis affermava che era possibile risalire alla identità dell’autore del messaggio attraverso il suo IP address, registrato dalla azienda nei file log dei suoi server; e benché ci fosse la possibilità che altri membri della Odigo avessero ricevuto lo stesso avviso, la compagnia sostenne di non aver ricevuto segnalazioni su altri eventuali destinatari del messaggio.
Il 28 settembre 2001, Brian McWilliams ritornò sull’argomento con un altro articolo dal titolo: «Odigo Clarifies Attack Messages», nel quale compare il resoconto di una intervista telefonica con Alex Diamandis, nella quale questo dirigente della Odigo, contrariamente alle prime dichiarazioni, affermò che il messaggio di allerta non conteneva indicazioni precise che individuassero il World Trade Center come il «target» degli attentati. Diamandis però rifiutò di rivelare qualunque altra informazione contenuta nel testo del messaggio, o altri particolari inerenti lo stesso, al fine di non provocare ulteriori congetture.
Sempre il 28 settembre 2001, Daniel Sieberg pubblicò sul sito della CNN un servizio sul medesimo argomento: «FBI probing ‘threatening’ message, firm says». Secondo il servizio, un funzionario confermò che l’FBI stava indagando per stabilire se il messaggio ricevuto dalla Odigo possedesse delle connessioni con gli attentati. Secondo Diamandis il messaggio, che si presentava come una minaccia e un avvertimento, non conteneva nulla di specifico, rimanendo sospetto in relazione alla sua collocazione temporale e non alla sua sostanza («Alex Diamandis, vice president for sales and marketing with Odigo Inc., said there was nothing specifically about the attacks in the message, but he said it was suspicious in nature, especially because of its timing. “I would describe it as a threat, a warning,” Diamandis said from New York»). Si sosteneva inoltre che l’avvertimento giunse ai due dipendenti alle 7:00 a.m. ora di New York; e che il personale della società decise di esaminare i log memorizzati sul server al fine di stabilire l’origine del messaggio. Dal canto suo l’FBI non confermò di aver ricevuto informazioni dalla Odigo.
Anche Ryan Naraine il 28 settembre 2001 si soffermò sulla vicenda con un servizio intitolato: «Odigo: Instant Messages Warned Of Terrorist Attacks». Naraine riprese confermandoli i dati forniti da Sieberg. Il messaggio non avrebbe contenuto una menzione esplicita del World Trade Center quale bersaglio degli attentati, e la sua rilevanza sarebbe stata in relazione solamente alla tempistica e non al contenuto, considerato di natura generica. Diamandis tenne un profilo basso e sostenne la tesi della «coincidenza».
David S. Fallis e Ariana Eunjung Cha, del Washington Post, il 4 ottobre 2001 con l’articolo: «Agents Following Suspects’ Lengthy Electronic Trail», aggiunsero alcuni particolari sul contenuto del messaggio spedito alla Odigo. Secondo Diamandis l’avvertimento conteneva l’indicazione che qualcosa di grosso sarebbe accaduto entro un preciso periodo di tempo, come effettivamente accadde. Sembra dunque che il messaggio contenesse delle precise indicazioni temporali, che permettessero di conoscere l’esatto momento, anche se non il luogo, in cui si sarebbero verificati gli attacchi terroristici. Infine Diamandis sostenne che il messaggio terminava con una calunnia antisemita («anti-Semitic slur»), rivelandoci un particolare che non compare negli altri servizi giornalistici da noi esaminati.
Il 20 novembre 2001, Chris Griffith del The Courier Mail di Brisbane (Australia) ritornò sulla vicenda. Da «FBI Investigates Message Warning» veniamo a sapere che dopo quasi due mesi l’FBI stava ancora investigando sulla faccenda. Interpellato il giorno prima dal giornalista australiano, Micha Macover confermò al The Courier Mail che il resoconto dei fatti in questione pubblicato da Haaretz era autentico, anche se non volle fare commenti in merito alle indagini («Odigo president Micha Macover yesterday would not comment on the investigation, but he confirmed to The Courier-Mail that a report of the incident in the Israeli publication Ha’Aretz was authentic»). La Odigo comunque trasmise all’FBI tutte le informazioni in suo possesso.
Cosa possiamo ricavare dalla lettura e dalla analisi del contenuto di questi articoli? I dati sono scarsi, e ogni scritto, se si eccettuano alcuni dettagli, riporta le stesse informazioni degli altri; come se attingessero tutti da una stessa fonte. Si può comunque affermare con certezza che la notizia ha per oggetto un evento reale, essendo confermata da due dirigenti della società: Micha Macover e Alex Diamandis. Il tutto non può quindi essere liquidato come una leggenda metropolitana, benché un commentatore di al-Jazeera abbia diffuso della vicenda una versione deformata venendo per questo motivo licenziato. È infatti in questa versione stravolta e manipolata della notizia, l’origine della maligna leggenda metropolitana secondo la quale agli operatori ebrei delle due Torri del World Trade Center fu dato preavviso del verificarsi degli attentati, dando così a loro, e solo a loro, la possibilità di salvarsi non presentandosi in ufficio quella mattina. Proseguendo, constatiamo che l’identità dei due dipendenti non viene divulgata, di loro conosciamo unicamente il profilo professionale all’interno dell’azienda. I due destinatari del messaggio non conoscevano l’identità del mittente; questo elemento ci fa pensare che egli sia stato sì un utente dei servizi offerti dalla Odigo, ma non un dipendente della stessa, e che per conseguenza il messaggio sia arrivato dall’esterno. Pure il testo esatto del messaggio resta ignoto, non essendo stato divulgato a causa delle indagini in corso. Sappiamo però che esso conteneva il preavviso (secondo Diamandis minaccioso e forse con una indicazione temporale) di un attentato terroristico, anche se non è chiaro in che misura l’avvertimento fosse generico o di natura specifica. Siamo anche al corrente che venne ricevuto dalla Odigo due ore prima del primo schianto contro il World Trade Center. Ciò che colpisce è comunque la prossimità temporale tra i due eventi, ed i dati sopra esposti ci permettono di fare una serie di considerazioni.
Una prima ovvia considerazione consiste nella semplice constatazione che qualcuno sapeva in anticipo degli attentati. Il primo schianto avvenne contro la Torre Nord del WTC alle 8:45 a.m. ora di New York. Va notato che i due dipendenti della Odigo non si trovavano nella sede di New York ma in quella di Herzliyya, ed è lì che ricevettero il messaggio, alle 6:45 a.m. ora di New York, ossia alla 1:45 p.m. ora di Tel Aviv. Il mittente del messaggio era completamente sconosciuto ai due destinatari. Forse per questo motivo inizialmente non presero sul serio il suo avvertimento. Forse lo considerarono uno scherzo di pessimo gusto oppure una millanteria, ed allertarono la direzione della società solamente dopo aver ricevuto notizia degli attentati. Dal canto suo l’autore del messaggio, dove si trovasse non lo sappiamo, stranamente non avvisò a New York la sede locale dell’FBI o la sede centrale della Odigo, come sarebbe stato logico fare, essendo quella la città obiettivo dei terroristi. Al contrario si premurò di contattare gli uffici di Herzliyya in Israele. Forse le informazioni in suo possesso erano di natura generica, senza una localizzazione precisa e potevano dunque riferirsi non solo agli USA ma anche a Israele? Non lo sappiamo. È importante però rilevare che quando l’avviso venne inviato, nessuno degli aerei coinvolti negli attacchi terroristici era ancora decollato. Infatti tutti e quattro gli aerei decollarono tra le 7:59 a.m. e le 8:14 a.m. ora di New York; perciò l’avvertimento arrivò ai due dipendenti della Odigo addirittura 1 ora e 14 minuti prima che avvenisse il primo decollo. Riassumiamo la sequenza cronologica degli eventi (ora di New York):
– ore 6:45 a.m., a Herzliyya (1:45 p.m.) la Odigo riceve il messaggio.
– ore 7:59 a.m., primo decollo (AA11, Boston-Los Angeles).
– ore 8:45 a.m., primo schianto (AA11, Torre Nord del WTC).
Inoltre, che cosa avevano a che fare due impiegati del «research and development and international sales office» della sezione israeliana della Odigo con la vicenda dell’11 settembre? Furono scelti a caso, oppure c’era una ragione precisa per spedire solamente a loro il messaggio che annunciava il prossimo verificarsi degli attentati? Lo stesso interrogativo può essere posto anche nei confronti della Odigo: fu scelta a caso o per una ragione particolare? Non solo, ma se il mittente era un utente registrato del servizio di messaggistica istantanea della società, e se i suoi tecnici esaminarono i log del server, sui quali venivano memorizzati gli IP address delle connessioni degli utenti, per la Odigo, e a maggior ragione per il Mossad e per l’FBI, doveva essere sicuramente possibile risalire all’identità del mittente ed al luogo di provenienza del messaggio. Chi era dunque costui e da dove spedì il messaggio? Era forse un individuo appartenente o contiguo a qualche agenzia di intelligence? Forse a quella israeliana? E che cosa intendeva fare avvisando i due dipendenti della Odigo? Possiamo ipotizzare che forse volesse sventare gli attentati, sperando, non potendolo fare personalmente, che i dipendenti della Odigo dessero l’allarme; cosa che fecero, però solo dopo che si furono verificati. Oppure, dato che fermare gli attacchi era ormai quasi impossibile, possiamo pensare che forse volesse lasciare una traccia, un indizio a beneficio di future indagini, rimanendo al sicuro nell’ombra. In questo senso il tono minaccioso e la frase antisemita riferita da Diamandis potrebbero rappresentare un tentativo di depistaggio.
Alcuni articoli giornalistici, da settembre fino a novembre del 2001. Poi più nulla, e questa storia scomparve per sempre dal mainstream mediatico.
Un’altro strano episodio accadde la mattina dell’11 settembre, questa volta nello Stato americano del New Jersey. All’interno del Liberty State Park di Jersey City sulla riva destra del fiume Hudson, distante in linea d’aria circa due chilometri dal World Trade Center a Manhattan, cinque uomini stavano filmando le Twin Towers, fumanti a causa dell’incendio provocato dall’impatto degli aerei e che di lì a poco sarebbero crollate. Avevano un comportamento inquietante questi individui: sembravano festeggiare e gioire per quanto stava accadendo, congratulandosi l’uno con l’altro. Una persona, che da un edificio nelle vicinanze stava osservando la scena con un binocolo, li vide ed avvisò l’FBI. Cinque giovani uomini, tutti israeliani.
Il 12 settembre 2001 The Record, un giornale del New Jersey, pubblicò un articolo di Paulo Lima: «Five men detained as suspected conspirators». Verso le 4:30 p.m. dell’11 settembre la polizia della contea di Bergen (New Jersey) fermò cinque sospetti a bordo di un furgone Chevrolet di colore bianco posteggiato sulla Route 3, tra il ponte Hackensack River e il Sheraton Hotel, in East Rutherford. Il furgone era di proprietà della Urban Moving Systems, una ditta specializzata in traslochi. Il proprietario dell’azienda: Dominik Suter. L’automezzo venne ispezionato accuratamente, anche facendo ricorso a dei cani appositamente addestrati per fiutare materiale esplosivo, ma, benché inizialmente i cani avessero fiutato qualcosa, non fu trovato nulla. Tuttavia, fonti vicine alle autorità inquirenti sostennero il rinvenimento di altre prove che collegavano i cinque uomini agli attentati. Nel furgone, infatti, furono rinvenute mappe della città di New York con alcuni luoghi messi in evidenza. Secondo tale fonte sembrava che i cinque sospetti fossero a conoscenza di quanto stava per accadere quando si appostarono nel Liberty State Park («”There are maps of the city in the car with certain places highlighted,” the source said. “It looked like they’re hooked in with this. It looked like they knew what was going to happen when they were at Liberty State Park.”»); i fermati dichiararono di essere turisti israeliani, anche se la polizia non fu in grado di confermare la loro identità e le autorità non rivelarono i loro nomi («Sources close to the investigation said the men said they were Israeli tourists»). Infine il particolare più importante – ricavato dal «Be On Lookout» dell’FBI – che ritroveremo ancora: subito dopo gli schianti degli aerei contro il WTC, tre dei cinque individui furono visti festeggiare («”Vehicle possibly related to New York terrorist attack. White, 2000 Chevrolet van with New Jersey registration with ‘Urban Moving Systems’ sign on back seen at Liberty State Park, Jersey City, NJ, at the time of first impact of jetliner into World Trade Center. “Three individuals with van were seen celebrating after initial impact and subsequent explosion. FBI Newark Field Office requests that, if the van is located, hold for prints and detain individuals.”»). E festeggiavano saltando sù e giù... («three people were jumping up and down»).
Il 13 settembre 2001 anche TCM Breaking News in «Suspects ‘filmed New York atrocities’» fornì un resoconto dello strano evento. Cinque uomini avevano installato delle videocamere nei pressi del fiume Hudson e le avevano puntate in direzione del WTC («There are reports five men suspected of being involved in the attack on the World Trade Centre set up cameras to record the atrocity. The men set up cameras by the Hudson River and trained them on the twin towers»). Venne inoltre riportata una notizia attribuita al New York Times, secondo cui nel momento in cui avvennero i crolli questi cinque individui incominciarono a congratularsi tra di loro («The New York Times reports they congratulated each other when the crashes occurred»). L’articolo affermava che il gruppo venne indagato dalla polizia di Union City nel New Jersey, ma non chiariva se furono messi sotto custodia. Non veniva specificata né la nazionalità né l’età dei cinque sospetti.
Sulle colonne di Haaretz, il 17 settembre 2001, comparve l’articolo di Yossi Melman «5 Israelis detained for ‘puzzling behavior’ after WTC tragedy»; qui si precisava che i cinque sospetti erano israeliani che avevano lavorato per una ditta di traslochi situata nel New Jersey, di proprietà di un altro israeliano in possesso della cittadinanza statunitense (che abbiamo visto chiamarsi Dominik Suter). L’FBI li aveva arrestati a causa del loro «comportamento sconcertante» («puzzling behavior»). Evidentemente ciò si riferisce al fatto di riprendere il momento degli impatti degli aerei contro le torri ed il loro crollo, seguito dalle congratulazioni fatte l’un l’altro e dalle manifestazioni di «gioia» e di «scherno» a loro attribuite («joy and mockery»). Secondo l’articolo, le riprese filmate delle Twin Towers furono eseguite dal tetto dell’edificio che ospitava la ditta per la quale avevano lavorato. Un vicino li scorse ed ha avvisò l’FBI, che li interrogò duramente per molte ore. L’appartamento di uno di loro fu perquisito ed il proprietario della ditta di traslochi interrogato. È significativo che, secondo la testimonianza della madre, uno di essi fosse stato interrogato per quattordici ore dall’FBI a causa della sua doppia cittadinanza: israeliana e di uno Stato europeo non specificato. Questo elemento avrebbe indotto gli agenti federali a ritenere che l’uomo lavorasse per il Mossad.
Il New York Times pubblicò ulteriori particolari sulla strana vicenda l’8 ottobre 2001. Il titolo del servizio: «5 Young Israelis, Caught in Net of Suspicion», scritto da Alison Leigh Cowan. Gli arrestati erano tutti ebrei israeliani («all five of the men were Israeli Jews»); di corporatura atletica e di età compresa tra i venti ed i trent’anni («well-built and in their 20’s»), viaggiavano a bordo di un grande furgone. Erano tutti in possesso di taglierini. Uno di loro aveva quattromila dollari in contanti, un altro due passaporti, un altro ancora fotografie delle macerie fumanti del World Trade Center realizzate stando sul tetto del furgone. Come già sappiamo il nome della ditta di traslochi per la quale avevano lavorato era Urban Moving Systems; e veniamo a conoscenza dei loro nomi: i fratelli Sivan e Paul Kurzberg, Yaron Shmuel, Oded Ellner e Omer Gavriel Marmari. Vennero detenuti nel Metropolitan Detention Center di Brooklyn, a causa dei loro visti scaduti e per la violazione delle leggi sull’immigrazione, in quanto avevano lavorato negli USA in possesso del solo visto turistico. Secondo il consolato israeliano di New York i cinque giovani non avevano nulla a che fare con gli attentati, benché venga sostanzialmente confermato, seppur in forma diversa, lo sconcertante particolare riportato anche dai precedenti articoli: i cinque israeliani sembravano non prendere sul serio la tragica situazione provocata dagli attentati terroristici («By some accounts, they seemed to be making light of the tragic situation»). Per il loro legale, Steven Noah Gordon, era il caso più strano che egli avesse mai visto.
Il 26 ottobre 2001 fu il Jerusalem Post ad occuparsi dello strano fatto con un articolo di Melissa Radler: «Israelis mistaken for terrorists may be home soon». Venivano ripresi e confermati i dati forniti dall’articolo del New York Times, e a questi se ne aggiunsero degli altri. Innanzitutto i cinque giovani israeliani erano in procinto di essere espulsi dal territorio degli Stati Uniti e riportati in Israele per ordine dell’Immigration and Naturalization Service (INS), in quanto avevano violato le leggi sull’immigrazione, ma non erano connessi con gli attacchi terroristici. Inoltre dovevano essere ebrei osservanti, in quanto, come affermò il loro avvocato, in prigione chiesero più volte, senza ottenerlo, del cibo kosher. Per quanto riguarda le immagini ed i filmati, essi sarebbero stati realizzati sia dal tetto dell’edificio che ospita la Urban Moving Systems, sia dal tetto del furgone. E ricompare il dettaglio più inquietante: nelle immagini delle Twin Towers, in primo piano si vedono i cinque sospetti sorridere («After the two terrorist airplanes hit the World Trade Center, the men went to the rooftop of their workplace, and the rooftop of their moving van, and began taking pictures of the burning buildings, some with themselves in the foreground smiling»). Anche se questi fatti vennero interpretati dal loro legale come una serie di coincidenze che fecero in modo che i cinque venissero scambiati per terroristi.
Tuttavia i cinque giovani fermati nel New Jersey erano solo una piccola parte degli israeliani detenuti nelle carceri americane all’indomani dell’11 settembre. Tamar Lewin e Alison Leigh Cowan in «Dozens of Israeli Jews Are Being Kept in Federal Detention», apparso sul New York Times il 21 novembre 2001, affermavano che tra gli oltre 1.100 detenuti in relazione con gli attentati, c’erano dozzine di giovani ebrei israeliani, tutti non in regola con i permessi di soggiorno negli USA. Secondo Ido Aharoni, del consolato israeliano di New York, i detenuti israeliani sarebbero una cinquantina: a San Diego, Houston, Kansas City, St. Louis e Cleveland. Si tratta di incarcerazioni poco comprensibili, se si pensa che i reati in materia di immigrazione non prevedono la detenzione; e se si pensa che in Ohio al 31 ottobre si trovavano in carcere undici israeliani in regola con il visto. Tutti di poco più di venti anni ed alcuni appena congedati dall’esercito di Israele. Per quanto riguarda i cinque del New Jersey, tre di loro furono rimpatriati, mentre gli altri due restavano in attesa del volo per Israele. Abbiamo inoltre un’altra testimonianza dell’inquietante comportamento dei giovani. Infatti una fotografia sviluppata dall’FBI mostrava in primo piano Sivan Kurzberg che teneva in mano un accendino acceso, con le macerie del WTC sullo sfondo («One photograph developed by the F.B.I. showed Sivan Kurzberg holding a lighted lighter in the foreground, with the smoldering wreckage in the background»). Ai giovani israeliani fu chiesto di sottoporsi alla macchina della verità, ma Paul Kurzberg rifiutò nel timore di divulgare troppe informazioni sul suo ruolo nelle forze armate di Israele e sulla sua attività connessa al Mossad («The five were asked to take polygraph tests before being allowed to leave. But Paul Kurzberg refused on principle to divulge much about his role in the Israeli army or subsequently working for people who may have had ties to Israeli intelligence»).
Il 23 novembre 2001 John Mintz sul Washington Post pubblicò «60 Israelis on Tourist Visas Detained Since Sept. 11», nel quale sosteneva che dall’11 settembre almeno sessanta giovani ebrei israeliani erano stati arrestati («At least 60 young Israeli Jews have been arrested») e detenuti negli Stati Uniti, anche se non c’erano prove che fossero coinvolti in atti di terrorismo. Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, agenti federali arrestarono dozzine di uomini e donne, provenienti da Israele, per aver lavorato muniti del solo visto turistico, che non permette di venir assunti in nessun posto di lavoro. In molti casi, come ad esempio a Cleveland e St. Louis, l’INS sostenne che essi erano di «speciale interesse per il governo»; un termine che l’FBI ha usato in molti dei casi che vedono arabi musulmani incarcerati in relazione all’11 settembre («”of special interest to the government,” a term that federal agents have used in many of the hundreds of cases involving mostly Muslim Arab men who have been detained around the country since the terrorist attacks»). Un ufficiale dell’INS, che volle mantenere l’anonimato, precisò che l’espressione «interesse speciale» significava che il caso in questione era in relazione alle indagini sull’11 settembre («the use of the term “special interest” means the case in question is “related to the investigation of September 11th”»). Inoltre molti degli israeliani detenuti, si affermava, avevano prestato servizio in Israele in unità antiterrorismo («A number of them had served in counterterrorist units in Israel»). E di nuovo lo strano, inquietante ed inspiegabile dettaglio che abbiamo già incontrato: i cinque giovani del New Jersey sembravano scherzare e divertirsi mentre osservavano il WTC bruciare e poi crollare («seemingly clowning around»).
Ma fu il 12 dicembre 2001 che il caso esplose, con il servizio di Carl Cameron «Suspected Israeli Spies Held by U.S.», mandato in onda nel telegiornale di Fox News. Secondo l’inchiesta di Cameron, negli USA ben sessanta israeliani furono arrestai dopo l’11 settembre. Tutti giovani che adoperavano come copertura la condizione di «studenti di Belle-Arti». Gli investigatori federali erano dell’avviso che essi fossero parte di un tentativo di spionaggio degli apparati federali statunitensi che si sarebbe protratto per lungo tempo («Some 60 Israelis, who federal investigators have said are part of a long-running effort to spy on American government officials, are among the hundreds of foreigners detained since the Sept. 11 terror attacks»). Sebbene non ci fossero prove del loro coinvolgimento in atti di terrorismo contro gli USA, gli investigatori avevano il sospetto che essi avessero raccolto informazioni sugli attentati dell’11 settembre prima che avvenissero, e non le avessero condivise con gli apparati della sicurezza USA («There is no indication the Israelis were involved in the Sept. 11 attacks, but investigators suspect that they may have gathered intelligence about the attacks in advance and not shared it»). Tuttavia una fonte di Fox News, rappresentata da un investigatore di alto livello, affermò che c’erano dei «collegamenti» («tie-ins»), anche se rifiutò di fornire ulteriori dettagli. E aggiunse che la prova che legava questi israeliani all’11 settembre era «classificata» («”Evidence linking these Israelis to 9-11 is classified, I cannot tell you about evidence that has been gathered. It is classified information,” the source said»). Dal canto suo, il portavoce dell’ambasciata israeliana negli Stati Uniti negò decisamente che il Mossad svolgesse attività spionistiche nel territorio USA o che avessero per oggetto gli USA. Cameron però riportò la notizia che un gruppo di israeliani scoperto in North Carolina aveva spiato in California un gruppo di arabi indagati dalle autorità americane per sospetti legami con il terrorismo. Il servizio di Cameron precisò inoltre che numerosi documenti classificati, ottenuti da Fox News, indicavano che, prima dell’11 settembre, centoquaranta israeliani furono arrestati e detenuti per sospetto spionaggio ai danni degli Stati Uniti («Numerous classified documents obtained by Fox News indicate that even prior to September 11, as many as 140 other Israelis had been detained or arrested in a secretive and sprawling investigation into suspected espionage by Israelis in the United States»). Tale attività sarebbe iniziata verso la metà degli anni novanta, e sarebbe consistita nel penetrare basi militari, la Drug Enforcement Administration (DEA), il Federal Bureau of Investigations (FBI) nonché dozzine di agenzie del governo ed abitazioni private appartenenti a personale governativo.
Pochi giorni dopo Fox News, con il programma suddiviso in quattro parti «Carl Cameron Investigates», approfondì l’argomento. Nella prima parte del programma si confermò quanto già detto nel telegiornale: il Mossad avrebbe acquisito informazioni sui preparativi degli attentati dell’11 settembre, ma non le avrebbe comunicate ai servizi di sicurezza americani. Nella seconda parte, Cameron illustrò il ruolo svolto da aziende israeliane quali la AMDOCS e la Comverse Infosys nello spionaggio condotto sul territorio americano grazie alla loro gestione delle comunicazioni telefoniche e alle tecniche di intercettazione delle stesse. Nella terza parte venne approfondito il tema trattato nella parte precedente. Infine nella quarta parte, Cameron spiegò come nel 1997 a Los Angeles, il crimine organizzato americano di matrice ebraica, specializzato nello spaccio di stupefacenti, avesse potuto mettere sotto sorveglianza le comunicazioni della polizia potendo così prevederne le mosse ed evitando di conseguenza molti arresti.
Negli Stati Uniti la storia venne dimenticata e l’inchiesta di Cameron trasmessa da Fox News, ed anche il servizio di Daniel Sieberg della CNN riguardante l’Odigo, vennero rimossi dai rispettivi siti web; forse perché troppo scomodi. Qualche mese dopo però, la notizia riapparve in Francia grazie a Intelligence Online di Guillaume Dasquié che il 28 febbraio 2002 pubblicò l’inchiesta «Un réseau d’espions israéliens découvert aux États-Unis». Ricordiamo che Guillaume Dasquié assieme a Jean-Charles Brisard nel 2001 diede alle stampe «Ben Laden. La vérité interdite», un libro nel quale venivano svelati i rapporti d’affari intercorsi tra la famiglia Bin Laden e al famiglia Bush. Nel dossier leggiamo che Intelligence Online è in grado di affermare che agenti del controspionaggio del Dipartimento della Giustizia statunitense hanno smantellato una rete di spie israeliane operanti sul territorio americano («Intelligence Online est en mesure d’établir qu’un vaste réseau d’agents de renseignement israélien opérant sur le territoire américain a été neutralisé par les services de contre-espionnage du département de la Justice»).
Sylvain Cypel su Le Monde il 6 marzo 2002 approfondì sull’argomento. Il titolo rieccheggiava quello precedente: «Un réseau d’espionnage israélien a été démantelé aux États-Unis». Cypel affermò che Dasquié fondava le sue affermazioni su un rapporto di sessanta pagine, risalente al giugno 2001, consegnato al Ministero della Giustizia americano da una «task force» costituita da agenti della DEA, dell’INS, dell’FBI e dell’ufficio indagini dell’US Air Force. Per quanto riguarda il reportage di Carl Cameron, veniamo a sapere il motivo per cui la Fox rimosse tutto il materiale dal suo sito web: a causa delle pressioni esercitate da due potenti lobby pro-Israele che denunciarono una «macchinazione». Si trattava del The American Israel Public Affairs Committee, che abbiamo già incontrato a proposito dell’arresto di Larry Franklin; e del Jewish Institute for National Security Affairs (http://www.jinsa.org). L’ambasciata israeliana negli Stati Uniti ovviamente considerò tutta la storia priva di fondamento. Le Monde chiese più volte alla Fox di fornirgli una registrazione della trasmissione di Cameron, ottenendo come unica risposta che ciò era impossibile a causa di un non meglio specificato «problema». Il rapporto in possesso del Ministero della Giustizia statunitense mostrava che molti di questi israeliani sospettati di spionaggio, in passato avevano prestato servizio nelle forze armate e nei servizi segreti israeliani. Altri ancora erano legati a società high-tech israeliane come la AMDOCS, la Nice e la Retalix («Le rapport remis au ministère américain de la justice, auquel Le Monde a eu accès, montre que beaucoup des “étudiants en art plastique” soupçonnés d’activité illicite ont un passé militaire dans le renseignement ou des unités de technologies de pointe. Certains sont entrés et sortis des Etats-Unis à plusieurs reprises, restant chaque fois pour de courtes périodes. Plusieurs sont liés aux sociétés de high-tech israéliennes Amdocs, Nice et Retalix. Interpellée, une “étudiante” a vu sa caution de 10 000 dollars payée par un Israélien travaillant chez Amdocs. Interrogés, deux autres reconnaissent être employés par Retalix»).
Il giornale francese ottenne altre informazioni, non contenute nel rapporto a cui faceva riferimento Dasquié; alcuni di questi «studenti di Belle-Arti», sparsi in almeno quarantadue città americane, avevano dichiarato di risiedere in Florida: e precisamente alcuni a Hollywood, a nord di Miami, ed altri a Fort Lauderdale. Ebbene, dieci dei diciannove dirottatori dell’11 settembre risiedevano nella stesa zona… («Plus du tiers de ces “étudiants”, qui, selon le rapport, se sont déplacés dans au moins 42 villes américaines, ont déclaré résider en Floride. Cinq au moins ont été interceptés à Hollywood, et deux à Fort Lauderdale. Hollywood est une bourgade de 25 000 habitants au nord de Miami, près de Fort Lauderdale. Or, au moins 10 des 19 terroristes du 11 septembre ont été domiciliés en Floride. Quatre des cinq membres du groupe ayant dérouté le vol no 11 d’American Airlines – Mohammed Atta, Abdulaziz Al-Omari, Walid et Waïl Al-Shehri – ainsi qu’un des cinq terroristes du vol United 175, Marwan Al-Shehhi, ont tous été domiciliés à divers moments à... Hollywood, en Floride. Quant à Ahmed Fayez, Ahmed et Hamza Al-Ghamdi et Mohand Al-Shehri, du vol United 75, comme Saïd Al-Ghamdi, Ahmed Al-Haznawi et Ahmed Al-Nami, du vol United 93 qui s’est écrasé le 11 septembre en Pennsylvanie, et Nawaq Al-Hamzi, du vol AA 77 (tombé sur le Pentagone), ils ont tous été un moment domiciliés à Delray Beach, au nord de Fort Lauderdale»).
Infine ABC News, il 21 giugno 2002, diffuse il reportage «The White Van Were Israelis Detained on Sept. 11 Spies?». Fu una donna, abitante nel New Jersey, il testimone che per primo avvistò i cinque israeliani intenti a filmare le Twin Towers. L’11 settembre la donna, che volle comprensibilmente conservare l’anonimato e che nell’articolo venne chiamata «Maria», inorridita stava osservando con un binocolo le torri del WTC in fiamme. Ad un certo punto la sua attenzione fu attirata da uno strano gruppo di uomini che, inginocchiati sul tetto di un furgone bianco, stavano eseguendo delle riprese filmate dell’accaduto. Ciò che la insospettì fu l’atteggiamento di costoro; sembravano contenti e per nulla sorpresi e scioccati da quanto stava accadendo. Per questo motivo annotò il numero di targa del furgone ed avvertì la polizia, che arrestò il gruppo verso le 4:00 p.m. («Maria says she saw three young men kneeling on the roof of a white van in the parking lot of her apartment building. “They seemed to be taking a movie,” Maria said. The men were taking video or photos of themselves with the World Trade Center burning in the background, she said. What struck Maria were the expressions on the men’s faces. “They were like happy, you know… They didn’t look shocked to me. I thought it was very strange,” she said»). Il resto lo sappiamo, si trattava di israeliani.
Dal rapporto della polizia risultò che uno di loro, Sivan Kurzberg, una volta arrestato disse: «Siamo israeliani. Non siamo noi il vostro problema. I vostri problemi sono anche i nostri. Il vero problema sono i palestinesi.» («According to the police report, one of the passengers told the officers they had been on the West Side Highway in Manhattan “during the incident” – referring to the World Trade Center attack. The driver of the van, Sivan Kurzberg, told the officers, “We are Israeli. We are not your problem. Your problems are our problems. The Palestinians are the problem.”»). Ricordiamo che, secondo l’articolo di Tamar Lewin e Alison Leigh Cowan, Sivan Kurzberg risultò essere il membro del gruppo che una foto ritrae in primo piano con un accendino acceso in mano e con le Torri Gemelle in fiamme sullo sfondo, insomma come fosse il fan di un gruppo musicale ad un concerto pop. Una fonte di ABC News sosteneva inoltre che l’FBI fosse convinta che la Urban Moving Systems avesse fatto da copertura per una operazione di intelligence israeliana («the FBI believed Urban Moving may have been providing cover for an Israeli intelligence operation»). Gli uffici della ditta di traslochi, situati a Weehawken nel New Jersey, vennero a lungo perquisiti dagli agenti federali, che sequestrarono scatole di documenti e una dozzina di hard disk. Per quanto riguarda il proprietario, Dominik Otto Suter, quando l’FBI cercò di interrogarlo di nuovo, risultò sparito («The FBI searched Urban Moving’s offices for several hours, removing boxes of documents and a dozen computer hard drives. The FBI also questioned Urban Moving’s owner. His attorney insists that his client answered all of the FBI’s questions. But when FBI agents tried to interview him again a few days later, he was gone»). Infatti aveva chiuso in fretta l’attività ed era ritornato con la famiglia in Israele («The owner had also cleared out of his New Jersey home, put it up for sale and returned with his family to Israel»). Sta di fatto che secondo Vince Cannistraro, ex capo delle operazioni di controterrorismo con la CIA e ora consulente di ABC News, alcuni nomi degli arrestati furono trovati in un database dell’intelligence nazionale («Vince Cannistraro, a former chief of operations for counterterrorism with the CIA who is now a consultant for ABCNEWS, said federal authorities’ interest in the case was heightened when some of the men’s names were found in a search of a national intelligence database»).
Riassumiamo.
È un fatto accertato che negli Stati Uniti esiste da lungo tempo una vasta rete spionistica, allestita dal Mossad, volta a raccogliere informazioni sulle infrastrutture militari e civili del Paese. Tale attività di spionaggio arriverebbe addirittura alla intercettazione delle telefonate del presidente americano e di quelle dei suoi più stretti collaboratori. Per fare questo il Mossad si avvarrebbe di modernissime apparecchiature elettroniche e di sofisticati software messi a disposizione da aziende israeliane quali la AMDOCS e la Comverse Infosys, operanti sull’intero territorio statunitense. Come abbiamo già detto, l’intelligence israeliana spia da tempo il suo migliore alleato, il Paese che ogni anno fa pervenire allo Stato di Israele miliardi di dollari di aiuti in campo economico e militare. Per Carl Cameron prima dell’11 settembre furono arrestati dal controspionaggio circa centoquaranta agenti israeliani sparsi su tutto il territorio USA. A cui si aggiunsero altri sessanta arresti di sospette spie del Mossad effettuati dall’FBI immediatamente dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre.
Che cosa facevano negli Stati Uniti questi israeliani nei mesi che precedettero gli attentati? Da Le Monde sappiamo che molti degli «studenti di Belle Arti» israeliani arrestati avevano risieduto in Florida, nelle stesse zone in cui nello stesso periodo avevano soggiornato dieci dei diciannove dirottatori di Al-Qaeda. Gli israeliani stavano forse spiando le attività dei terroristi islamici? Sapevano dei preparativi degli attentati? Sapevano ma, per qualche motivo, non hanno condiviso le loro informazioni con le autorità americane? Tutti interrogativi senza risposta.
È in tale contesto che si situa lo sconcertante l’episodio dei cinque giovani israeliani, arrestati nel New Jersey l’11 settembre del 2001. Proviamo ad analizzare l’accaduto. I cinque vengono notati da una donna mentre sono intenti a filmare le Twin Towers sulle quali si erano già schiantati gli aerei dirottati. Ma ciò che insospettisce «Maria», come viene chiamata la donna, non è il fatto che costoro stessero scattando delle foto o stessero filmando quanto stava succedendo. Molti cittadini americani, seppur inorriditi, quel giorno fecero la stessa cosa. La stessa «Maria» stava osservando la scena con un binocolo, e probabilmente anche lei, se avesse avuto una macchina fotografica, avrebbe scattato delle istantanee del WTC in preda al rogo. No, ciò che attira l’attenzione della donna e suscita i suoi sospetti, tanto da indurla a chiamare la polizia, è l’atteggiamento dei cinque uomini; un atteggiamento del tutto incongruo con il tragico spettacolo che avevano dinnanzi agli occhi. Il gruppetto infatti stava manifestando soddisfazione alla vista dell’orrido spettacolo delle Torri colpite. Ricordiamo le espressioni usate per descrivere la reazione dei giovani: «Three individuals with van were seen celebrating after initial impact and subsequent explosion», «three people were jumping up and down», «they congratulated each other when the crashes occurred», «joy and mockery», «puzzling behavior», «they seemed to be making light of the tragic situation», «and began taking pictures of the burning buildings, some with themselves in the foreground smiling», «One photograph developed by the F.B.I. showed Sivan Kurzberg holding a lighted lighter in the foreground, with the smoldering wreckage in the background», «seemingly clowning around», «They were like happy, you know… They didn’t look shocked to me. I thought it was very strange». Come va interpretato questo comportamento? Come quello di chi ha finalmente portato a termine il proprio compito e realizzato il proprio progetto? Festeggiavano forse una sorta di «missione compiuta»?
Inoltre, arrivarono sul posto dopo gli attentati, o, conoscendo in anticipo ciò che stava per accadere, si appostarono con la loro videocamera in attesa del tragico evento? Certamente il Liberty State Park di Jersey City si trova in una posizione strategica per osservare le torri del WTC; riesce quindi difficile pensare che i cinque israeliani si trovassero lì, muniti di videocamera, per caso. E perché mostrarono in maniera così smaccata e vistosa la loro soddisfazione per l’accaduto, da attirare subito l’attenzione di «Maria»? Forse erano certi, anche nel caso fossero stati scoperti, di una totale impunità? Altri interrogativi senza risposta.
E poi, c’è un legame tra questa vicenda e quella che ha visto come protagonisti i due dipendenti della Odigo? Certamente il mittente dei messaggi sapeva dell’imminenza degli attentati. Forse faceva parte della rete spionistica israeliana in USA – uno degli «studenti di Belle Arti» o uno di quei giovani che percorrevano gli Stati Uniti a bordo di furgoni per traslochi – e all’ultimo momento, decise di dare l’allarme? Se sì, perché chiamare due dipendenti della Odigo e non l’FBI o le autorità di Israele? Anche i due impiegati della Odigo che ricevettero il messaggio forse facevano parte del Mossad o erano ad esso contigui? Anche a questi interrogativi non c’è risposta. Ma la storia non finisce qui.
Fuori dal New Jersey, furgoni per traslochi con a bordo giovani israeliani, continuarono a percorre le strade degli Stati Uniti anche dopo l’11 settembre 2001. Una copertura perfetta quella di una ditta di traslochi; che permette di percorrere indisturbati e senza destare sospetti le strade e le autostrade dell’immenso territorio USA, dove i cambiamenti di residenza, anche a grandi distanze, sono frequenti.
Spostiamoci in Pennsylvania, ad una cinquantina di chilometri da Philadelphia. Michelle Mowad, cronista del quotidiano della città di Pottstown The Mercury, con un articolo del 17 ottobre 2001 dal titolo «2 found with video of Sears Tower», fece il resoconto di un oscuro episodio accaduto in un’altra città della Pennsylvania. Si trattava della città di Plymouth, distante circa centosessanta chilometri da Philadelphia, dove la polizia fermò tre persone sospette a bordo di un autocarro; due uomini dalle fattezze mediorientali e una donna di razza bianca («a white female»). I due uomini vennero messi sotto custodia dall’INS, mentre la donna fu rilasciata. Arabi? No, israeliani. Tutti giovani tra i venti ed i trent’anni. I nomi: Moshe Elmakias, Ron Katar e Ayelet Reisler, la donna del gruppo, quest’ultima con un passaporto tedesco contraffatto. Uno di loro aveva fatto visita ad un concessionario di automobili lì vicino di nome Don Rosen. Sulla fiancata dell’autocarro c’era una scritta: «Moving Systems Incorporated», una ditta di traslochi («a sign posted on the side of the vehicle read “Moving Systems Incorporated” and included a phone number»). La polizia perquisì il camion e trovò una videocamera e una videocassetta con delle riprese filmate piuttosto precise, complete di zoom. Di che cosa? Della Sears Tower, che con i suoi 442 metri di altezza è l’edificio più alto di Chicago e uno dei più alti del mondo («Among the items in the truck was a Sony video camera. Plymouth Police Officer David McCann reviewed the tape found inside the camera. The tape had video footage of Chicago with zoomed-in shots of the Sears Tower, according to police»). Di questi giovani israeliani, come di tutta questa vicenda non si seppe più nulla. E, a quanto è dato sapere, The Mercury, di Pottstown in Pennsylvania, fu l’unico organo di stampa che ne diede notizia.
Ed ecco di nuovo Carl Cameron, di Fox News, con il reportage del 13 maggio 2002: «Police Seize Rental Truck With TNT Traces». Il 7 maggio 2002, un furgone di una ditta di traslochi venne fermato per eccesso di velocità a Oak Harbor, situata sull’isola chiamata Whidbey Island nello Stato di Washington, dove ha sede una Naval Air Station. Sull’automezzo e addosso a uno degli occupanti vennero trovate tracce di TNT e di esplosivo al plastico RDX, rinvenute grazie a un cane appositamente addestrato a fiutarne i residui. Ricordate l’articolo di Paulo Lima del 12 settembre 2001 che riportava lo stesso particolare? Delle indagini se ne occuparono l’FBI, l’INS ed il Bureau of Alcohol, Tobacco and Firearms (BATF). I due occupanti risultarono essere israeliani, uno entrato illegalmente negli USA e l’altro con il permesso di soggiorno scaduto. Entrambi vennero arrestati per violazione delle leggi sull’immigrazione («Documents read to Fox News indicate that both driver and passenger were Israeli nationals. Investigators say a roadside check of the national database of immigration records indicated that one of the men had not entered the country legally, and the other was in violation of his visa. Both men were taken into custody for immigration violations»).
Sempre nello Stato di Washington, il 14 maggio 2002 un giornale di Seattle, il Seattle Post-Intelligencer, riprese la notizia grazie al servizio di Mike Barber: «Case of Whidbey Island ‘terrorists’ is a dud, FBI says». A occuparsi del caso furono delle agenzie federali, per il motivo che nella base situata sull’isola di Whidbey Island, vicino a Oak Harbor, erano dispiegati gli aerei Prowler per il controllo e la guerra elettronici («The fact that Oak Harbor is near Whidbey Island Naval Air Station, home of the electronic warfare Prowler jets, heightened concerns»). Tuttavia una portavoce dell’FBI affermò che i controlli successivi, per accertare la presenza di esplosivi, risultarono negativi. Il cane avrebbe inizialmente fiutato solamente il residuo lasciato da un accendino per sigarette. I due israeliani vennero dunque indagati solamente per la violazione delle leggi sull’immigrazione («Border Patrol agents took custody of the two men, who claimed to be Israeli citizens, for investigation of immigration violations»).
Melissa Radler, del Jerusalem Post, il 15 maggio 2002 con l’articolo «FBI clears Israelis suspected of carrying explosives», confermò che sul furgone non c’era esplosivo e che i due giovani israeliani destarono i sospetti delle autorità a causa della loro vicinanza alla base militare ed ai loro documenti irregolari. Tutto risolto dunque, si trattò ovviamente di un malinteso…
Ma questi non sono gli unici episodi che vedono piccoli gruppi di israeliani, su furgoni per traslochi e muniti di macchine fotografiche e videocamere, aggirarsi con fare sospetto nei pressi di installazioni militari ed infrastrutture civili statunitensi, cioè intorno a quelli che noi chiameremmo «obiettivi sensibili». Wayne Madsen, ex agente della NSA e giornalista investigativo, nel suo «The Israeli Art Students and Movers Story», riporta altri casi simili verificatisi da un capo all’altro degli Stati Uniti. Unitamente ai casi da noi citati ecco la lista di tali episodi dal giorno degli attentati in poi: 11 settembre 2001, New Jersey; 17 ottobre 2001, Pennsylvania; 7 maggio 2002, Washington; 15 maggio 2003, New Mexico; 10 maggio 2004, Tennessee; 21 maggio 2004, Georgia; ottobre 2004, Oklahoma.
Ovviamente questi sono solo i casi di cui si è avuto notizia. Gli elementi sono comunque sempre gli stessi: un furgone, una ditta di traslochi, giovani israeliani con documenti non in regola, tracce di esplosivo, basi militari, filmati di edifici; ed è probabile che anche in questo momento un furgone con un gruppetto di israeliani a bordo si aggiri per gli USA… e forse anche per l’Europa.
Sono strane vicende queste. Troppo strane, oscure e dalle implicazioni troppo gravi per rimanere a lungo nel panorama informativo internazionale dominato dai media ufficiali. Com’è noto, viviamo in un mondo «normale», dove «certe cose non succedono» e per questo motivo i media faticano ad occuparsene. Sta di fatto che dopo l’11 settembre è stata messa in moto una sorta di «Macchina per il Controllo Mentale», e così ben presto le notizie su questi episodi sono scomparse dai quotidiani e dai notiziari televisivi; ormai tutti instancabilmente impegnati ad aggiornarci sull’andamento e su gli ultimi sviluppi della «Grande Lotta al Terrorismo» che porterà la «libertà» e la «democrazia» nel mondo intero. Esse hanno però continuato una loro esistenza in una miriade di siti internet, dove vengono archiviate e preservate a futura memoria. Ignorate tuttavia dalla stragrande maggioranza della popolazione, che non usa e non userà mai internet, e che continua a trarre la propria percezione della realtà dalle immagini trasmesse dalla televisione. Viviamo infatti nell’èra dell’homo videns, l’èra nella quale tutto ciò che non viene mostrato in televisione semplicemente non esiste e non è mai esistito.
In ogni caso, la verità completa su questi fatti non la conosciamo e molto probabilmente non la conosceremo mai. A nostra disposizione ci sono solo pochi dati e poche tracce disseminate qua e là nei meandri di internet. Queste due storie restano quindi ancora tutte da decifrare. Rimane una sensazione: che esse siano solo la punta di un iceberg, che rappresentino l’emergere ambiguo e fugace di qualcosa di vasto e spaventoso.
Piccoli indizi che ci parlano di un progetto indicibile.
Spiare il miglior alleato
EIR Blows Israeli Spies’ Cover in Sept. 11 Case
by Jeffrey Steinberg and Edward Spannaus
Executive Intelligence Review
http://www.larouchepub.com/other/2001/2850megaspies_story.html
Espionnage israelien aux USA?
par Emmanuel Ratier
Faits & Documents
http://www.faits-et-documents.com/archives/125.pdf
Israeli Spy Operations on U.S. Soil
American Free Press
http://www.americanfreepress.net/Israeli_Spy_Ops_in_U.S.pdf
Spy ring busted. AIPAC scandal breaks loose
by Richard Walker
American Free Press
August 21, 2005
http://www.americanfreepress.net/html/spy_ring.html
The Franklin Arrest
New York Sun Editorial May 5, 2005
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US man leaks secrets on Iran
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- Messaggi per la Odigo
Agents Following Suspects’ Lengthy Electronic Trail
by David S. Fallis and Ariana Eunjung Cha
Washington Post October 4, 2001
http://www.washingtonpost.com/ac2/wp-dyn?pagename=article&node=&contentId=A2325-2001Oct3¬Found=true
FBI Investigates Message Warning
by Chris Griffith
The Courier Mail (Brisbane, Australia)
November 20, 2001
FBI probing ‘threatening’ message, firm says
by Daniel Sieberg
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Instant Messages To Israel Warned Of WTC Attack
by Brian McWilliams
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http://www.findarticles.com/p/articles/mi_m0NEW/is_2001_Sept_27/ai_78686829
Odigo Clarifies Attack Messages
by Brian McWilliams
Newsbytes News Network
September 28, 2001
http://www.findarticles.com/p/articles/mi_m0NEW/is_2001_Sept_28/ai_78763670
Odigo: Instant Messages Warned Of Terrorist Attacks
by Ryan Naraine
atNewYork
September 28, 2001
http://www.atnewyork.com/news/article.php/8471_893851
Odigo says workers were warned of attack
by Yuval Dror
Haaretz September 26, 2001
http://www.haaretz.com/hasen/pages/ShArt.jhtml?itemNo=77744&contrassID=/has
September 11, 2001: Two Hours Before Attacks, Israeli Company Employees Receive Warnings
Cooperative Research
http://www.cooperativeresearch.org/entity.jsp?entity=odigo_inc.
Cinque israeliani nel New Jersey
5 Israelis detained for ‘puzzling behavior’ after WTC tragedy
by Yossi Melman
Haaretz
September 17, 2001
http://www.haaretz.com/hasen/pages/ShArt.jhtml?itemNo=75266&contrassID=2
5 Young Israelis, Caught in Net of Suspicion
by Alison Leigh Cowan
New York Times
October 8, 2001
60 Israelis on Tourist Visas Detained Since Sept. 11
by John Mintz
Washington Post
November 23, 2001
http://www.washingtonpost.com/ac2/wp-dyn?pagename=article&contentId=A3879-2001Nov22¬Found=true
Dozens of Israeli Jews Are Being Kept in Federal Detention
by Tamar Lewin with Alison Leigh Cowan
New York Times
November 21, 2001
EIR Executive Alert First Reported Israeli Spy Teams in United States
Executive Intelligence Review