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BO-LAND OF THE LIVING DEAD: "Ecologia, business del futuro" svolta verde dei big industriali
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BO-LAND OF THE LIVING DEAD

pubblicato il Jan 23, 08:41 AM
"Ecologia, business del futuro" svolta verde dei big industriali

IL CASO
Vigilia del World economic forum di Davos

Le multinazionali cavalcano l’emergenza-inquinamento
Le corporation Usa a Bush: tagliare le emissioni di gas serra

dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI

DAVOS – Anche sulle Alpi svizzere la stagione sciistica è stata rovinata dalla mancanza di neve. Questo inverno anomalo, che alcuni esperti indicano come una possibile manifestazione del surriscaldamento climatico, sembra una cornice fatta su misura per ospitare la svolta del World Economic Forum.

Quest’anno l’appuntamento fra i Vip della globalizzazione ha infatti un protagonista inedito: il “capitalismo verde”. Il vertice di Davos ha spesso la capacità di segnalare nuove tendenze: negli anni Novanta fu dominato da Internet, dal 2000 in poi rivolse l’attenzione all’ascesa di Cina e India. Da domani i 2.500 esponenti dell’establishment internazionale discuteranno di effetto serra, energie rinnovabili, sviluppo sostenibile. A promuovere le nuove priorità a Davos non sono solo scienziati e ambientalisti ma il Gotha del capitalismo mondiale.

Con una sterzata significativa, alcune tra le più potenti multinazionali del mondo hanno deciso di cavalcare l’emergenza-inquinamento, scommettono che le tecnologie verdi saranno un business trainante del XXI secolo. La rapidità della loro conversione spiazza molti governi, rende ancora più visibile il ritardo dei politici, a cominciare dall’Amministrazione Bush.

Alla vigilia del Forum di Davos un’iniziativa clamorosa è nata proprio negli Stati Uniti. Dieci colossi del capitalismo americano si sono alleati con le più note associazioni ambientaliste per dare vita alla US Climate Action Partnership, una nuova lobby che preme perché Washington aderisca al Trattato di Kyoto e imponga drastici obiettivi di riduzione delle emissioni carboniche.

A mobilitarsi non sono i soliti noti dell’industria “liberal” californiana – dove peraltro il governatore Arnold Schwarzenegger ha già varato delle regole più stringenti di Kyoto. A scendere in campo è l’industria antica, tradizionalmente conservatrice e vicina ai repubblicani. Nel “capitalismo verde” si sono arruolati Alcoa (il massimo produttore mondiale di alluminio), General Electric (colosso delle centrali elettriche e dei turboreattori), i due produttori di energia Pacific Gas & Electricity e Duke Energy, la banca d’affari Lehman Brothers. A Bush hanno lanciato un diktat: vogliono che vari dei limiti obbligatori alle emissioni carboniche, con l’obiettivo di ridurle del 30% entro 15 anni. Il chief executive della Duke Energy sostiene che “gli Stati Uniti devono diventare il motore trainante di un rilancio e di un miglioramento di Kyoto”.

L’iniziativa dei dieci big del capitalismo Usa riflette un cambiamento di umore nell’establishment industriale, che ha il suo parallelo su questa sponda dell’Atlantico. Un sondaggio compiuto alla vigilia di Davos fra i top manager delle maggiori imprese europee (Ups Europe Business Monitor) rivela che per il 45% degli amministratori delegati l’ambiente è diventato la preoccupazione numero uno, ha il sopravvento sulla crescita economica. Il 60% ritiene che l’Europa dovrebbe affidare il suo futuro energetico a fonti rinnovabili come il sole, il vento, l’idrogeno.

La “conversione verde” dell’establishment capitalistico globale ha molte cause. Pesano la pressione delle opinioni pubbliche, dei consumatori e dei movimenti ambientalisti, oltre che la mole schiacciante di studi scientifici sui costi futuri del surriscaldamento climatico. Ma la molla finale che ha accelerato il cambiamento è quella a cui i chief executive sono più sensibili: il profitto. Si è imposta ormai la convinzione che le tecnologie verdi saranno un grande business del futuro, e i primi a capirlo saranno i più veloci a catturare opportunità e profitti.

La frusta della competizione ha funzionato, le imprese all’avanguardia nel business eco-compatibile hanno messo in difficoltà gli avversari. Il caso più lampante è la Toyota, la prima casa automobilistica ad avere sviluppato l’auto ibrida (motore misto a combustione ed energia elettrica che dimezza i consumi e quindi le emissioni). A lungo le case americane ed europee non ci hanno creduto, hanno snobbato l’auto ibrida come un prodotto senza mercato, al massimo una curiosità di nicchia.

Quest’anno la Toyota venderà 250.000 modelli di Prius ibrida. Da quando quel modello è stato introdotto il valore di Borsa della Toyota è cresciuto del 47%. Non solo grazie alla tecnologica ibrida, ma a una gamma complessiva dai consumi più bassi delle concorrenti, la Toyota quest’anno farà lo storico sorpasso sulla General Motors diventando la più grossa casa automobilistica mondiale. Dietro la Toyota si allunga la lista delle multinazionali che fanno dell’ambiente una priorità strategica.

Nokia, Ericsson, Motorola, Dell, sono all’avanguardia nel ritirare gratuitamente dai consumatori computer, telefonini e altri prodotti elettronici usati per riciclarli minimizzando le scorie tossiche nell’ambiente. La Philips e la Matsushita puntano su nuove lampadine e apparecchi elettrici che abbattono i consumi. La Shell investe nelle energie eolica e solare. Il più grande gruppo mondiale della distribuzione, la catena di ipermercati americani Wal-Mart – forse per riparare un’immagine macchiata dalle sue battaglie contro i sindacati – privilegia sistematicamente la vendita di prodotti non inquinanti e riciclabili.

Un altro gruppo della grande distribuzione, Marks&Spencer, fa marcia indietro rispetto al dogma della delocalizzazione: anziché comprare tutto made in China cerca di approvvigionarsi da produttori vicini ai suoi punti di vendita, per minimizzare l’inquinamento creato dal trasporto delle merci. La multinazionale anglo-olandese Unilever, numero uno mondiale dell’agroalimentare, investe nel Terzo mondo per diffondere l’agricoltura biologica e le coltivazioni che riducono i danni alla biosfera. Un numero crescente di imprese pubblica nei propri bilanci societari annuali un “rapporto di sostenibilità ambientale”, che misura l’effetto della loro attività sulle emissioni carboniche e il clima del pianeta.

Il gruppo editoriale americano Time ha ricostruito passo per passo – dall’abbattimento degli alberi per la cellulosa fino all’edicola – l’impatto ambientale di ogni copia di giornale venduta. Questi sforzi non nascono solo da un capitalismo “illuminato” ma dalla consapevolezza che è meglio giocare d’anticipo, in vista di leggi e normative che diventeranno più severe. In America un ruolo lo hanno avuto Stati come la California e il Massachusetts che hanno imposto limiti all’inquinamento molto più severi di quelli graditi a Bush. E le soluzioni avanzate dal nuovo “capitalismo verde” sono ancora largamente insufficienti.

La crescita di Cina e India continua a essere alimentata da consumi energetici altamente inquinanti: le centrali termoelettriche a carbone costruite ex novo in Cina nel solo anno 2006 equivalgono all’intera produzione energetica dell’Italia. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia nel 2030 i carburanti fossili responsabili dell’effetto serra continueranno a fornire l’81% di tutta l’energia mondiale. Come unire gli sforzi del mondo intero per risolvere l’impatto energetico di “Cindia”?

Su questo terreno a Davos si attende l’intervento del cancelliere tedesco Angela Merkel. Dopo i risultati modesti e gli imbrogli del sistema di “commercio delle emissioni carboniche” applicato finora in Europa, la palla è nel campo dei governi. Alcuni chief executive del capitalismo globale stanno indicando la strada alle classi dirigenti politiche. E’ finita l’epoca in cui l’ambientalismo si auto-limitava presentandosi come un’ideologia pauperista, nemica dello sviluppo, e perciò inevitabilmente minoritaria.

(23 gennaio 2007)