Lettera aperta al Movimento bolognese
Dibattito a sinistra. Spunti di riflessione per un confronto aperto tra le reti e soggettività che hanno partecipato alle dinamiche del conflitto sociale e politico in questa città
Valerio Monteventi*
Questo mio contributo vuole essere una sollecitazione ad aprire una discussione (per troppo tempo rinviata o accantonata) tra le varie reti e le tante soggettività che in questi 5/6 anni hanno attraversato o sono state attive nelle dinamiche del movimento bolognese.
Se prendessimo per buona la lettura che la Procura della Repubblica ha deciso di dare alle lotte e al conflitto sociale in questa città, questa mia vorrebbe essere una “istigazione” a continuare il viaggio politico e sociale compiuto in questi anni con molte delle persone che hanno vissuto l’esperienza del Bologna Social Forum, incrociando tanti altri nuovi compagni di strada.
In un momento in cui, per il movimento, sono tempi duri, senza i grandi numeri degli anni passati (quando bastava convocare un’iniziativa e arrivavano migliaia di persone), in una città in cui la politica del “dividi e impera” sta lasciando segni molto preoccupanti, vorrei rivolgere una domanda un po’ provocatoria a tutti noi e, in primo luogo a me stesso.
Riteniamo sia utile ridare vita a un percorso sperimentale per intrecciare i tanti pezzi di movimento che, a Bologna, si dimenano tra un intervento sul lavoro nero e un’occupazione di una casa o di uno spazio di aggregazione sociale, tra le campagna per la chiusura dei CPT e quelle per i diritti dei migranti, tra il conflitto quotidiano alla precarietà e l’iniziativa sindacale sul posto di lavoro, tra la lotta per il reddito e la disputa ordinaria per la sopravvivenza, tra la costruzione di reti solidali e la battaglia per il diritto ai saperi contro il copyrigth, tra il contrasto al moralismo proibizionista e il bisogno di nuove forme di socialità?
Abbiamo la voglia di ricostruire uno spazio di confronto unitario capace di parlare ai più, dove radicalità ed autonomia non siano sinonimi di autosufficienza?
Per fare questo, ritengo necessario che ognuno di noi cerchi di usare, nella maniera più idonea, tutto il sale che ha nella zucca.
E’ per questa ragione che gli spunti di riflessione, che esporrò qui di seguito, mi piacerebbe servissero a stimolare un confronto franco e aperto.
BOLOGNA SOTTO I RIFLETTORI NAZIONALI
E’ sempre più evidente che il “fenomeno Cofferati” che si parli di legalità o di eversione, di lavavetri o di occupazioni, di ruspe sul Lungoreno o di Rifondazione, di goliardi o di merda dei cani, di coprifuoco alcolico o di street rave parade, è materia di forte interesse mediatico nazionale.
Che il sindaco, da Bologna, voglia condizionare (a suo modo) la politica italiana l’ha capito anche il più sprovveduto dei commentatori. Che sotto le due torri si voglia dimostrare (anche a Prodi) come si tiene a bada la sinistra radicale è altrettanto palese. Che questa città debba essere, per forza, “laboratorio politico” è un’altra di quelle croci di cui faremmo volentieri a meno: l’ultimo in ordine di tempo è quello riguardante la nascita del Partito Democratico (qui ci potrebbero essere i numeri e, soprattutto, il desiderio di sperimentare un’autosufficienza “riformista”: da questo punto di vista, la messa all’angolo della sinistra radicale e dei movimenti è un elemento qualificante).
Tutto ciò per dire che, quando decidiamo di intraprendere una battaglia politica dobbiamo essere attrezzati (avere le spalle sufficientemente larghe) per attutire eventuali contraccolpi legati più alle cose descritte sopra che alla reale portata della nostra azione.
L’ultimo esempio in ordine di tempo è la vicenda dell’aggravante di “finalità eversive” affibbiata per la quinta volta ad attivisti del movimento per episodi di lotta sociale legati alle condizioni materiali del mondo della precarietà.
Quello che è stato denunciato per l’autoriduzione alla mensa universitaria, durante la conferenza stampa del 20 aprile scorso (anche nella cosiddetta “durezza delle parole usate”), non è stato molto dissimile da quello che era stato affermato in occasioni analoghe (per la conferenza delle 29 denunce di “San Precario vola al cinema” o per i tre ragazzi di Passe-partout arrestati).
Come per Fabiano, Carmine e Vittorio era stata lanciata la campagna sulla legalità, questa volta il tormentone è stato riproposto, a partire dal sindaco, per tenere rigoglioso il conflitto con Rifondazione. E’ stato rilanciato dalla componente dalemiana dei DS (a Bologna maggioritaria) per una sorta di ritorsione per l’elezione di Bertinotti a presidente della Camera a discapito del leader Massimo.
Metteteci poi il Corriere della Sera che, dopo aver dato indicazione di voto per il centro-sinistra, passate le elezioni, ha inteso condizionare in termini neo-centristi e filo-confindustriali la debole coalizione guidata da Prodi. Mai occasione poteva essere più ghiotta per isolare il Prc e, quindi, sbattere il caso e i relativi “mostri” in prima pagina?
Gettateci anche le lotte interne ai DS per posti importanti come il segretario di Bologna, quello regionale e il presidente della Regione alla fine del secondo mandato di Errani e capirete come mai un OdG di solidarietà ai 40 denunciati per l’occupazione della Stazione il giorno dell’inizio dei bombardamenti in Iraq viene approvato in Consiglio provinciale e bocciato in Consiglio comunale.
Aggiungeteci quel tanto di stalinismo che, come il cacio sui maccheroni, nei momenti opportuni, viene amalgamato a tutto l’insieme (la vittima sacrificale “Monteventi” che Rifondazione dovrebbe abbandonare al suo destino appoggiandosi, secondo i dirigenti diessini, a sponde meno inquiete), e la frittata è fatta.
E così una questione importante (l’uso improprio e pericoloso della legislazione d’emergenza – già criticata al momento della sua introduzione nel 1979), posta da diverse reti di movimento, viene completamente espropriata sull’altare della bagarre politico-istituzionale e, salvo Sansonetti su Liberazione, diversi esponenti del Prc e alcuni verdi, nessun altro che entri nel merito dei problemi posti dai compagni della rete Universitaria e dai loro avvocati.
LA PERMANENTE ACCENTUAZIONE DELLO SCONTRO: SIAMO ALLA “BALCANIZZAZIONE”
“La politica come attività deliberatrice ispirata dalla prudenza”; è evidente che, da quando Cofferati è arrivato a Bologna, Aristotele non va più per la maggiore da queste parti.
Ma pure il Mefistofele che elargisce consigli sull’arte del governo al ministro del re malaticcio (“mantenere costante una moderata oppressione, chè tanto se questa si spingesse oltre certi limiti, quanto se venisse improvvisamente a mancare, il popolo potrebbe scuotersi ed insorgere”) potrebbe essere tacciato di un esagerato senso della misura dettato da un troppo spiccato “equilibrismo consociativo”.
“Non v’è cosa che faccia tanto stabile e ferma una repubblica quanto l’ordinarla, in modo che l’alterazione degli umori che l’agitano abbia a sfogarsi secondo l’ordine delle leggi”, forse è da questa tesi di Macchiavelli che il Cofferati sindaco ha preso spunto per fare emergere una concezione della politica che “spezza e interrompe la trama del divenire, anticipandone i punti critici”.
Verosimilmente anche il nostrano “principe balinese” si trova a fare i conti con il dilemma irresolubile della semantica machiavelliana (cioè con “l’anarchia, il conflitto e il disordine”) di cui deve incessantemente e necessariamente venire a capo, riformulando i princípi e i vincoli normativi dell’ordine.
Ho voluto addentrarmi, per un attimo, in una specie di gioco dell’oca filosofico, perché ogni tentativo che abbiamo fatto in questi mesi, da quello più rozzo a quello più ragionato, per comprendere le motivazioni che stanno dietro all’agire “duro e ostinato” del sindaco non ha trovato nessun riscontro convincente.
Ecco allora riproporre una domanda: perché il sindaco di Roma Veltroni (dello stesso partito di Cofferati) non ha avuto nessun problema ad avere nella sua coalizione, oltre i partiti della sinistra radicale, anche una lista legata ai movimenti come Roma Arcobaleno, forte dell’esperienza di Action, una delle reti più attive per quanto riguarda le occupazioni di immobili sfitti?
Perché a Roma si sono potute tenere l’11 marzo e il 6 maggio due street parade antiproibizioniste senza il carico di polemiche che il rave party produce a Bologna? E, soprattutto, perché nella capitale a nessuno è venuto in mente di vietare le manifestazioni e qui, invece, è diventata materia di “scambio politico” o, per meglio dire, di “ricatto politico”?
Perché a Roma le iniziative di lotta sulla casa hanno prodotto una delibera comunale “partecipata” e qui le 40 occupazioni (non le diverse migliaia che sono in corso sotto l’ombra del Colosseo) sono utilizzate per alimentare una “guerra tra poveri” senza senso? Anche perché nessuno ha finora spiegato la ragione dei 980 alloggi pubblici (censiti vuoti), questo era lo scandalo che l’ex assessore Amorosi avrebbe dovuto denunciare e che, invece, si è fatto “casualmente” sfuggire.
Viceversa, a Bologna, secondo quello che abbiamo appreso dai media, ci sarebbero tre problemi da rimuovere in quanto occulterebbero il buon operare di Giunta e Sindaco, se non, addirittura, rappresenterebbero una specie di macigno che blocca l’oliato ingranaggio di una buona amministrazione. Questi tre “casi difficili” Cofferati li ha elencati in quest’ordine:
1) un consigliere comunale troppo movimentista,
2) le occupazioni,
3) la street rave parade.
Vi sembra che, a partire da questi presupposti, qualcuno a Palazzo d’Accursio abbia le idee chiare su cosa significa “governare” una città a fronte delle mille contraddizioni che la attraversano?
Non pare anche a voi che quello che sta capitando a Bologna sia una vera e propria balcanizzazione della politica e delle dinamiche sociali, dove il “tutti contro tutti” sta diventando normale quotidianità?
E da una “guerra senza capo né coda”, alimentata da un’informazione sempre più “drogata” e da un ceto politico che fa del “mors tua vita mea” la sua professione di fede, io credo ci si debba sottrarre al più presto, altrimenti ad esserne devastati saranno i soggetti più deboli, quelli che riescono meno a destreggiarsi con gli strumenti della comunicazione, quelli che portano avanti battaglie, a volte, difficili da comprendere.
Questo non significa assolutamente passività di fronte ai soprusi e alle ingiustizie che abitualmente si riscontrano, ma credo occorra lavorare a un’agenda politica diversa da quella che fin’ora ci è stata imposta.
CONDIZIONE SOCIALE E MOVIMENTI
Bisogna scegliere un terreno del confronto politico che faccia emergere un protagonismo positivo dei movimenti a partire dalla condizione sociale di larghi strati della popolazione della nostra città. I temi li conosciamo, anche perché, in parte, abbiamo iniziato ad affrontarli: – le nuove forme di espropriazione nella precarietà del lavoro; – l’insicurezza crescente nelle prospettive di esistenza; – le nuove forme di alienazione nell’uso del tempo libero; – i guasti quasi inevitabili nella qualità della vita; – la compressione inesorabile dei diritti, soprattutto dei soggetti più deboli, migranti in primo luogo.
Veniamo ora a una serie di questioni concrete che dovremo affrontare nelle prossime settimane. Si tratta di mettere in campo strategie comunicative e di lotta, le più inclusive possibili, ma anche di riflettere su debolezze, sviste, malintesi, mancanze ed errori che certe azioni si sono portate dietro.
Partiamo dalle occupazioni.
Penso di aver partecipato attivamente, in vita mia, a più di quaranta occupazioni (tra scuola, università, fabbrica, immobili dismessi), quando ho contribuito ad occupare fabbricati vuoti l’ho sempre fatto per aiutare persone senza casa o per promuovere progetti di aggregazione sociale o culturale. Ho sempre cercato di informarmi sulle cause dell’abbandono degli edifici e sull’esistenza o meno di piani di utilizzo futuri (per dare solidità agli elementi che caratterizzavano l’iniziativa di lotta e di denuncia). Ogni volta, insieme agli altri che stavano occupando con me, ho adottato comportamenti che mirassero ad allargare il consenso su forme di lotta non certo “facili” per farne comprendere le “ragioni forti”, soprattutto dal punto di vista sociale. E abbiamo sempre operato affinché l’occupazione non fosse un elemento ostile, di disturbo o di estraneità rispetto al contesto sociale circostante.
Detto questo, non è che un simile approccio abbia automaticamente prodotto un risultato positivo: abbiamo dovuto spesso contrastare pregiudizi culturali e politici o interessi economici e speculativi.
Abbiamo subito manganelli e repressione (dalle polizie di stato), ruspe e campagne forcaiole (dalle polizie di partito).
A volte abbiamo vinto, trovando una casa a chi ne aveva bisogno o uno spazio per riconoscere il diritto all’aggregazione e alla progettualità sociale.
A volte abbiamo “accelerato” la realizzazione di progetti bloccati dalle lungaggini della burocrazia amministrativa.
Non di rado abbiamo perso e ne abbiamo pagato le conseguenze dal punto di vista penale.
Ho voluto descrivere questo orizzonte perché credo che molti di questi presupposti abbiano una loro validità anche oggi, di fronte a una situazione in cui le diverse pratiche di occupazione vengono tutte descritte, in primo luogo da Cofferati, come pietre di uno scandalo che danneggerebbe soprattutto i soggetti più deboli.
E, allora, parlando dei 45 alloggi occupati e dei relativi sgomberi annunciati per le prossime settimane, si tratta non tanto di aspettare la fatidica “Ora X” e di preparasi alla resistenza, ma, in primo luogo va aperta, a breve, un campagna politica in città per confutare la tesi che queste poche decine di occupazioni impedirebbero l’assegnazione della casa ERP a chi ne avrebbe legittimamente diritto.
Non si può prendere spunto da questi casi per scatenare una “guerra tra poveri” quando si è scoperto, da diversi mesi, che gli alloggi pubblici vuoti da ristrutturare, nella nostra città, sono 980 (avete capito bene: novecentottanta).
Esiste un progetto per un piano di recupero? Se sì, nessuno lo conosce, ma è molto facile che non esista.
E allora sono le 45 occupazioni il problema?
Usciamo però dal terreno della denuncia e cerchiamo uno sbocco politico positivo a una lotta che dura da più di due anni. Questa mobilitazione, poco più di un mese fa, ha ottenuto un piccolo risultato: per la prima volta, in bando pubblico (quello per l’affitto calmierato in alloggi di edilizia convenzionata) è stato possibile inserire, insieme alle ragazze madri, agli anziani, ai lavoratori a basso reddito, anche figure sociali del lavoro precario.
Voglio ricordare (dato che molti non ne sono a conoscenza) che due dei picchetti anti-sfratto che come reti di movimento abbiamo attivato hanno prodotto, oltre che il rinvio dello sgombero, l’assegnazione successiva di un alloggio pubblico (per emergenza abitativa) ai due nuclei familiari. Si tratta di un altro piccolissimo risultato, ma che non era assolutamente scontato.
E, allora, rispetto alle 980 case vuote e alle 45 occupate, non aspettiamo il momento dei prevedibili sgomberi per mobilitarsi, costruiamo un contesto sociale per il quale una proposta di un bando pubblico di autorecupero per almeno 100 dei 980 alloggi vuoti sia uno sbocco politico per gli occupanti ma anche una prospettiva sociale per altri precari e non che hanno il problema della casa.
Rimanendo sul problema della casa, credo che l’iniziativa di movimento debba mettere all’attenzione la questione degli affitti in nero.
La campagna sulla legalità del sindaco Cofferati ha rivoltato come un calzino gli “stili di vita” e gli “abusi” dei tanti soggetti deboli (di volta in volta, occupanti di case, precari, baraccati, lavavetri, migranti di diverse etnie, studenti fuorisede), ma non ha mai sfiorato una radicata “abitudine” di tanti bravi cittadini “stanziali” che da diverse decine di anni affittano in nero le loro seconde o terze case, non a metro quadro ma a posto letto (e da questa attività la cui liceità è molto dubbia ricavano interessanti gruzzoletti).
Negli anni settanta erano gli universitari fuori sede ad ingrossare le borse di affittacamere e strozzini, oggi, alla popolazione studentesca si aggiungono lavoratori provenienti da alter regioni o da altri paesi.
Questa è la città dove l’affissione “abusiva” di “offro posto letto in camera doppia” copre intere colonne dei portici, lasciando “tracce inequivocabili” di illegalità, senza che nessun inquirente (troppo impegnati a perseguire le “finalità eversive” dei movimenti?) trovi il tempo di seguirle per aprire inchieste.
Questa è la città dove circa 20 mila “fuorisede”, siano essi studenti, lavoratori meridionali o lavoratori stranieri, sono costretti a pagare 300 euro a posto letto o 500 euro a stanza singola. E, per avere in affitto al nero una topaia, devi presentare una busta paga o una fideiussione bancaria. E il padrone, per un affitto da 1000/1220 euro, si permette di guardarti in camera, e ti chiede di dichiarare che non farai figli, per lasciare libero presto l’appartamento.
Questa è la città dove gli immigrati, quando trovano un proprietario disposto ad affittare, si vedono proposto un “canone speciale”, per un periodo transitorio, con un costo “maggiorato” (rispetto al costo medio) del 60/70 %, naturalmente “a persona” e in nero.
Di fronte a questa situazione di speculazione diffusa, lasciata colpevolmente (da parte delle Istituzioni) crescere nel corso degli anni, occorre cambiare rotta, a partire da una risposta sociale molto forte.
Perché non iniziamo a confrontarci per dare vita a una Campagna di Autoriduzione degli Affitti in Nero, prendendo come riferimento il costo di 129 euro mensili a posto letto (la cifra che il Comune fa pagare ai migranti alloggiati nei Centri di Prima Accoglienza cittadini)?
Concretamente, si tratta di vedere come costruire strutture di supporto legale a questa lotta e sportelli informativi e su come coinvolgere le tante persone che si trovano di subire la condizione di strozzinaggio.
Che questa lotta possa essere considerata “eversiva” anziché un modo per ripristinare legalità e giustizia sociale sarà un problema che ci porremo in un secondo tempo.
UNA BATTAGLIA DI LIBERTA’ CONTRO IL PROIBIZIONISMO
L’ondata proibizionista in città è iniziata con la famosa “ordinanza Mura” sul divieto di vendita si birra e bevande alcoliche fuori dai locali dopo le ore 21. Quasi in contemporanea al provvedimento, sono cominciate le prime esternazioni del sindaco contro la street rave parade. Successivamente ha preso piede, come conseguenza, una campagna contro abitudini e stili di vita caratteristici dell’universo giovanile.
In questi mesi abbiamo assistito al tentativo, da parte del sindaco, di rivestire il ruolo di autorità morale. Ci si è accaniti sui comportamenti dei giovani, sono state innalzate sempre più barriere sociali, si è arrivati a una vera e propria stigmatizzazione della sofferenza delle fasce più deboli.
E’ abbastanza strano pensare che la chiusura degli spazi di aggregazione giovanile o dei punti di ritrovo civici possano produrre maggiore coesione sociale e capacità di convivenza.
Come si pensa di affrontare il problema della coabitazione tra le esigenze di riposo dei residenti e quelle di svago e dello stare insieme dei giovani, cercando di governare le contraddizioni esplose in zone come Piazza Verdi, Piazza San Francesco, Via del Pratello, Piazza Santo Stefano, se al tempo stesso, vengono chiusi spazi come il Cacubo, si lavora alacremente per sgomberare il Livello 57, si creano le condizioni per la cancellazione di Scandellara Rock Festival, si apre la campagna per negare la Street Rave Parade?
Dove andranno a “svernare” quest’estate le migliaia di ragazze e ragazzi che solitamente frequentano questi luoghi?
E, soprattutto, quali opportunità per esprimersi ci saranno per le tante forme della creatività giovanile presenti in città, principalmente in ambito musicale?
E il provvedimento di chiusura di pub e osterie all’1 (salvo i cosiddetti locali “virtuosi”), giustificato per motivi di ordine pubblico e di schiamazzi notturni, in una città “nottambula” e universitaria come Bologna quali effetti produrrà?
I “DROGATI” NEMICI DI TURNO PERFETTI
Che a Bologna la “Zero Tolleranza” non sia più solo uno slogan ma un’ideologia costituente lo si è percepito con chiarezza quando, in pieno dibattito sullo street rave parade, il consigliere Lonardo (DS) ha proposto un appello by partisan contro la droga (firmato da consiglieri di centro destra e centro sinistra) dal sapore “muccioliano”.
Affrontare un argomento complesso e in rapida evoluzione come quello delle droghe, con appelli, che non distinguono tra droghe leggere e pesanti, facendo finta che non esista una normativa che criminalizza il consumo e che distrugge il sistema dell’intervento pubblico, vuol dire essere indifferenti alla sofferenza, al carico penale sulla società e alle patologie, senza conseguire nulla contro il nemico, la droga, che si dichiara di voler combattere.
Accanirsi sui comportamenti dei giovani (forse perché hanno dimostrato di esser quell’area con più forte capacità critica) attraverso il proibizionismo non fa che aumentare la già forte precarietà sociale.
Questi fatti mostrano come i politici siano rimasti fermi rispetto a tutto il lavoro svolto dagli operatori sociali e sanitari e dai gruppi che volontariamente non solo intervengono sul campo, ma sanno elaborare politiche efficaci, perché attente alla concretezza dei problemi e non ingessate dal moralismo proibizionista.
Negli anni ‘70 e ‘80 l’uso delle sostanze era legato alle contro-culture, ai giorni nostri è diventato un elemento di massa.
Oggi ha preso corpo una figura sociale (spesso stigmatizzata sia dalla destra che dal centrosinistra) che è diventata il principale obiettivo della legge Fini-Giovanardi, si tratta dei consumatori, cittadini che non vogliono essere considerati né malati né criminali.
Non bisogna però dimenticare che esistono anche i consumatori non consapevoli, i tossicodipendenti, che vengono colpiti dallo smantellamento del servizio pubblico. I tossicodipendenti come i migranti sono un po’ il paradigma della trasformazione dello stato sociale in stato penale.
Per queste ragioni, penso sia arrivato il momento di riproporre con forza una politica alternativa sulle droghe che, insieme al contrasto alle narcomafie, promuova il rilancio del servizio pubblico, basandosi sul presupposto della libertà di scelta terapeutica, sull’esegibilità del diritto alla cura e sul rispetto dei diritti delle persone.
Sulla base dello slogan “nessuna dipendenza, liberi di scegliere”, bisogna costruire un pacchetto di nuovi diritti sociali, connotato da un approccio antiproibizionista: – legalizzazione delle droghe leggere; – depenalizzazione completa del consumo di sostanze, comprese la cessione gratuita e la coltivazione domestica; – misure alternative al carcere per i detenuti tossicodipendenti; – ampliamento delle politiche di riduzione del danno; – utilizzo medico dei derivati della canapa.
Antiproibizionismo, in relazione alle politiche locali, significa muoversi verso un cambiamento di una situazione incancrenita dalla questione sicurezza. Allora, prendendo sul serio questo tema, lo dobbiamo rovesciare affrontando la sicurezza dei consumatori e qui si entra nel campo della riduzione del danno e dei rischi, e quindi si va oltre le cosiddette droghe leggere.
Una corretta informazione può contribuire senz’altro a sviluppare consapevolezza rispetto ai propri comportamenti ed ai rischi che si corrono. Inoltre, può consentire davvero di fare pulizia delle schifezze che appestano il mondo dei consumatori, persone motivate dalla ricerca del benessere che finiscono troppo spesso ad ingrossare inutilmente le fila del disagio e della sofferenza.
LA PRECARIETA’ COME UN BLOB
In questi ultimi decenni, la “mano invisibile” del mercato ha creato anche in un’area metropolitana come quella bolognese grossi problemi economici, sociali e ambientali.
Il governo della città, troppo impegnato in campagne “legge e ordine”, ha schivato in gran parte questi problemi. Ha preferito creare cortine fumogene per non affrontarli. Ha scelto di dislocare sul terreno dell’ordine e della sicurezza pubblica tensioni sociali e disagi che hanno la loro reale origine nelle contraddizioni sociali generate dal neoliberismo e dalle diseguaglianze da esso generate.
Anche a Bologna le politiche securitarie si sono alimentate con l’ansia sociale e, in specifico, erano mirate a creare forme di consenso verso un sistema di governo che non sarebbe riuscito ad ottenere altrettanto sul piano delle concrete problematiche socio-economiche.
E’ per questo che andrebbe aperta una riflessione non banale sulla precarietà e sull’ansia sociale che questa situazione sta provocando, per dare poi vita concretamente ad una piattaforma dei diritti (esegibili ed adeguatamente finanziati), per colmare le distanze sociali presenti in città.
Quando si parla di precarietà, non ci si riferisce semplicemente ai diritti negati in ambito lavorativo, ma ad una condizione generale che colpisce molti strati della popolazione (stanziale o migrante), che si traduce nell’impossibilità di accedere a diritti reali di cittadinanza, a godere di beni e servizi fondamentali (dall’abitare alla mobilità, dalla formazione alla cultura, dall’accesso all’informazione alla socialità).
Il lavoro precario e nero, in particolare quello dei migranti sottoposti a novelle forme di caporalato, è in progressivo aumento. E questo fenomeno non viene sicuramente limitato dall’amministrazione attraverso i meccanismi delle esternalizzazioni e delle convenzioni con i privati (i casi di Seribo e dell’assistenza domiciliare sono significativi).
Nella nostra città gli incidenti sul lavoro, in particolare nei cantieri edili, sono in aumento, e le vittime sono soprattutto tra i migranti, ma non solo. Con i prossimi progetti di “grandi opere”, previsti per i prossimi anni, il fenomeno può solo ampliarsi (guardate gli episodi avvenuti in queste settimane nei cantieri dell’Alta Velocità e della Variante di Valico).
Che dire poi delle problematiche legate al lavoro che un tempo era considerato sicuro, alla dislocazione delle aree produttive e alle dismissioni di attività nel settore manifatturiero, dove non ci sono nemmeno i barlumi di un qualsiasi intervento?
Non è un caso che la “normalità della precarietà” attanagli anche lavoratori e lavoratrici dipendenti con contratto a tempo indeterminato (autoferrotranvieri, metalmeccanici), che vivono con ansia o la prossima privatizzazione o la prossima crisi industriale o il ridimensionamento del welfare locale e nazionale.
In questo contesto, è bene ribadire, come ha fatto a più riprese il Coordinamento Migranti, la valenza politica centrale e strategica che il lavoro migrante esprime rispetto al lavoro nel suo complesso. Sarebbe riduttivo pensare i migranti, come una delle tante categorie di “precari”, senza tenere conto delle specificità delle condizioni assai diverse in alcuni aspetti non trascurabili della vita materiale e formale, tra italiani e migranti; questi ultimi, infatti, sono soggetti alla possibilità di detenzione ed espulsione e bersagli di un razzismo sempre più aggressivo.
Questo è tanto più vero di fronte all’affermarsi di una logica che non solo in Italia ma in tutta Europa vuole i migranti forza lavoro da “importare” ed espellere a seconda delle esigenze del mercato, a cui si aggiunge la destabilizzazione del lavoro attraverso la legge 30 che riguarda tutti i lavoratori.
Per questo va proseguita la lotta ostinata alla Bossi-Fini e ai CPT, anche perché una nuova generazione nata e cresciuta in Italia vede già il proprio futuro imbrigliato nella gabbia di questa legge.
UN INSIEME CRITICO CONTRO IL MODERATISMO
Sta prendendo corpo un’idea di città stile “ipermercato” fatta di grandi centri commerciali, di multisale cinematografiche, di superstrade, mega-parcheggi, di case dormitorio in ripetizione seriale che ha come controcampo l’atomizzazione, l’emarginazione, la dissoluzione degli spazi pubblici, producendo evidenti effetti di disgregazione sociale.
A tutto questo noi dobbiamo riattivare una ricerca sul senso della città, innescando politiche e luoghi di relazione rivolti alla società locale e ai fermenti di comunità che crescono dal territorio. Dobbiamo far crescere esperienze di partecipazione che abbiano come tensione ideale la ricostruzione della comunità, dello spazio pubblico, dei diritti di cittadinanza, dello scambio solidale. Dobbiamo lavorare a ricostruire forme di identità collettiva, spazi e luoghi inclusivi dell’incontro fra differenze, relazioni fra individualità e gruppi. Va sviluppata una critica pratica alla società della merce attivando nel territorio reti di economia solidale e relazioni di mutuo soccorso.
Bisogna lottare per l’apertura di nuovi spazi e contribuire alla rivitalizzazione/rifondazione di quelli esistenti, in cui sperimentare una “socialità altra”, impiegando risorse che, nell’espressione del nostro antagonismo, non abbiano bisogno del confronto muscolare ma privilegino l’uso della parola, l’irriverenza all’autorità, l’allergia ai potenti e recuperino il gusto della narrazione.
Dalle lotte e dai movimenti di questi anni bisogna costruire un programma che ne raccolga le istanze sociali e i contenuti, assumendo come punto di vista la critica al neoliberismo e alla guerra, alle culture privatistiche e di mercato.
A Bologna, così come da altre parti del territorio nazionale, si fanno vedere preoccupanti segnali di una voluta autosufficienza della sinistra moderata proprio sul terreno delle scelte di governo, la “corsa verso il centro” ha sconquassato gli equilibri delle coalizioni di centro-sinistra.
C’è una difficoltà di molti amministratori di “sinistra” a considerare la cessione di potere alla società come un effettivo aumento di sovranità sul territorio. Troppi sono abituati a considerare la delega con il voto il massimo di democrazia, dimenticandosi che i partiti non sono più gli “unici” collettori della domanda sociale e che la partecipazione (tanto evocata ma mai concretamente voluta) è “vera” se valorizza le progettualità espresse dai nuovi movimenti.
Il nostro, pertanto, dovrebbe essere un contributo al contenimento del moderatismo e delle invadenze dei poteri forti (finanziari, immobiliari, della comunicazione e non solo), dando priorità ai bisogni sociali, ponendosi dalla parte dei soggetti più deboli. C’è bisogno di un “insieme critico”, radicale nelle sue istanze, che rifugga la prospettiva del partito democratico, ma al tempo stesso faccia emergere la necessaria insofferenza alla frammentazione della sinistra e alle attuali forme della politica.
La composizione sociale odierna, la ricerca di forme inedite di relazione e di organizzazione non sono molto compatibili con le gerarchie delle strutture dei partiti o con le forme della rappresentanza tradizionale.
Noi dobbiamo parlare a tutte quelle figure escluse, schiacciate dall’economia capitalistica, ma senza una politica di massa, senza una forma di organizzazione della continuità del conflitto sociale, queste, da sole, non contano e non incidono, e rimangono prigioniere dalla precarietà flessibile.
Tantissimi uomini e donne, in questi anni, hanno partecipato ai movimenti, sono stati attivi in associazioni e comitati, hanno organizzato campagne di boicottaggio. Hanno dimostrato che si può fare “politica diffusa” senza, obbligatoriamente, militare in un partito. Si è trattato di organizzazioni e persone che hanno cercato di dar vita a un modello di democrazia, viva, critica e autenticamente partecipativa, con l’intenzione di influenzare le scelte politiche generali, ottenere il rispetto e la promozione dei diritti fondamentali, battersi per la difesa del proprio territorio. Ce ne sono molte altre che avrebbero voluto farlo, ma spesso non sono riuscite a organizzarsi, non avendo gli strumenti appropriati per dare consistenza alle proprie volontà.
Con questa realtà molto vasta e articolata che ha fatto emergere contenuti forti, criticità, culture e anche un’aspirazione a costruire alternative possibili noi dobbiamo intraprendere un confronto su come dare vita a una nuova stagione di contrattazione sociale, coniugando lo sviluppo delle lotte per la realizzazione dei principi di uguaglianza e di giustizia sociale a un rinnovato garantismo che impedisca i processi di criminalizzazione in atto.
*consigliere comunale indipendente di Rifondazione Comunista, leader del movimento no-global a Bologna